BLOW UP
Impressioni sul mondo attraverso dipinti, libri, parole, persone
DIVERGENT
Divergent è un romanzo di fantascienza per ragazzi di Veronica Roth, primo capitolo dell’omonima trilogia.
La storia si svolge a Chicago, in un futuro imprecisato. I primi due libri riferiscono che gli abitanti di Chicago sono gli unici esseri umani rimasti al mondo, e per proteggersi dalle minacce esterne hanno costruito una recinzione che corre tutt’intorno alla città, senza però sapere cosa ci sia all’esterno.
La popolazione, per mantenere la pace raggiunta dopo la guerra e non essere lacerata da conflitti interni,si è divisa in cinque fazioni, ognuna delle quali svolge un ruolo preciso nella società:
I Candidi, che ritengono che la colpa della guerra sia l’ipocrisia, sono sinceri e dicono sempre la verità, e per questo si occupano della legge. I Pacifici, che, reputano la malvagità la maggiore causa della guerra, sono gentili e rigettano l’aggressività, motivo per cui sono assistenti sociali, consulenti e coltivatori di terre. Gli Eruditi, secondo cui la guerra è conseguenza dell’ignoranza , seguono la via della conoscenza e dedicano la vita alla cultura e lavorano come insegnanti, scienziati o ricercatori. Gli Abneganti, che sono convinti che l’egoismo sia il motivo principale della guerra, sono al servizio degli altri per tutta la loro vita e, per questo loro comportamento altruistico, sono l’unica fazione a cui è permesso far parte del governo della città. Gli Intrepidi, che credono che la guerra sia causata dalla codardia, sono coraggiosi e forti, caratteristiche per cui alcuni li ritengono pazzi, e il loro compito è mantenere l’ordine della città. Si vestono di nero e hanno numerosi piercing e tatuaggi. Esiste un un ulteriore gruppo che vive all’interno della città, ossia gli Esclusi. Essi sono coloro che non sono riusciti a superare l’iniziazione delle fazioni, che si svolge a sedici anni, o sono usciti dopo aver fatto parte di una fazione. Gli esclusi vivono nei sobborghi delle città e hanno rapporto solo con gli Abneganti, che danno loro il cibo avanzato dopo averlo distribuito alle altre cinque fazioni.
Beatrice Prior è una sedicenne che vive con i suoi genitori e suo fratello Caleb. La sua è una famiglia della fazione degli Abneganti.
Si dovrà sottoporre al Test Attitudinale che le farà fare la scelta della fazione e, successivamente, alla cerimonia della scelta, dovrà prendere una decisione: rimanere con la sua famiglia oppure abbandonare tutto e trasferirsi in un’altra fazione.
Quando si sottopone al test, Beatrice scopre di essere una Divergente. Tori, la donna intrepida incaricata di sottoporre i test, le dice di non farne parola con nessuno: l’essere Divergente è molto pericoloso, se lo scoprono i capifazione o il governo, li uccidono.
Alla cerimonia, Beatrice, stanca degli Abneganti, sceglie gli intrepidi e decide di farsi chiamare Tris. Deve affrontare un iniziazione molto dura: per diventare un vero Intrepido bisogna avere il controllo delle proprie paure.
Tris è decisa a non diventare un’Esclusa perciò si impegna per superare al massimo le prove. Durante l’iniziazione, conosce persone nuove, tra cui gli amici Will, Christina e Al e il suo istruttore Quattro, all’inizio era molto severo ma poi si innamora e stabiliscono una relazione segreta. Quattro scopre che Tris è una Divergente e deve insegnarle come affrontare le simulazioni per non farsi scoprire. Finita la cerimonia che sancisce Beatrice come vera e propria intrepida, i capifazione iniettano a tutti un luquido a cui solo i Divergenti sono immuni. Questo liquido è stato inventato dagli Eruditi che, servendosi degli Intrepidi, vogliono distruggere la fazione degli Abneganti per prendere in mano il governo.
Durante la guerra scoprono che Tris e Quattro sono Divergenti e così li sparano e li catturano. A Quattro viene fatta un’ulteriore iniezione.
Mentre Tris è sul punto di morire, la madre appare dal nulla e spara ai soldati intrepidi, ma nel combattimento la madre muore e lei è costretta a cercare il padre da sola. Lì, nel nascondiglio, trova il padre, il fratello e Marcus, il padre di Tobias (Quattro).
Tris per salvarsi uccide l’amico Will, anche lui sotto l’effetto del siero degli Eruditi, e di cui Christina era innamorata.
Usciti dal nascondiglio lei, il padre, suo fratello e Marcus raggiungeranno il centro di controllo per distruggere i computer con cui viene controllato l’esercito di intrepidi, mentre altri si rifugeranno nella fazione dei Pacifici.
Tris riesce a risvegliare Quattro, insieme rubano l’Hard Disk e liberano gli intrepidi che tornano ad essere loro stessi.
Lasciandosi alle spalle il cadavere di suo padre, rimasto ucciso da una guardia, sale sul treno con Quattro, Caleb, Marcus e Peter, un intrepido che durante l’iniziazione ha tentato di ucciderla, e insieme si rifugiano dai Pacifici.
Le fazioni degli Abneganti e degli Intrepidi si sono sciolte e i loro membri diventeranno presto Esclusi.
Chiara Lauletta
COLPA DELLE STELLE
….CI SONO INFINITI PIU’ GRANDI DI ALTRI INFINITI….
Questa è la frase con la quale la protagonista, da’ l’ultimo saluto al suo grande amore Gus; racchiude in sé, il senso più profondo del film, l’idea di infinito e finito che ripercorre continuamente il libro/film, il dramma della malattia e la spensieratezza dell’adolescenza, la morte e la vita, la paura e il coraggio, un gioco infinito di contrasti che porta la protagonista a cogliere l’attimo, il Carpe diem….
Hazel Grace è una diciassettenne come tante, con la sola differenza che è malata da tempo di cancro. Nonostante le aspettative di vita non troppo lunghe, Hazel coltiva diversi interessi, tra cui un grande amore per la lettura, soprattutto per il romanzo di Peter Van UN’ AFFLIZIONE IMPERIALE. Spronata dai genitori, frequenta un gruppo di sostegno per giovani malati terminali. Qui incontra un giovane di nome Gus Waters un ex giocatore di basket con una gamba amputata per colpa di un tumore osseo, tra i due nasce subito una forte empatia.
Hazel fa leggere a Gus il suo romanzo preferito e anche che lui rimane particolarmente colpito, tanto che scrive all’ autore, chiedendogli di poterlo incontrare. Lo scrittore risponde al ragazzo con un invito a incontrarlo ad Amsterdam. Purtroppo prima di partire Hazel finisce in terapia intensiva per colpa del liquido cancerogeno che le riempie i polmoni. Tra tentennamenti dei medici ed voglia di andare, i due ragazzi riescono a partire ed a incontrare lo scrittore. L’incontro si rivela una delusione per entrambi. Di rimando, l’atmosfera di Amsterdam fa sbocciare l’amore tra i due giovani, che vivono con passione e spensieratezza la loro piccola parte di infinito. La realtà purtroppo irrompe nell’amore dei due giovani, quando Gus confessa a Hazel che il tumore è tornato con tante metastasi in tutto il corpo, una grave ricaduta che scandisce anche il tempo che gli rimane. Infatti, dopo il ritorno in America Gus muore; e al suo funerale lo scrittore, invitato da Gus ancora in vita, consegna una lettera a Hazel dove Gus ha scritto l’elogio funebre per lei, e ribadisce per l’ ultima volta il suo amore.
Questo film ci invita a pensare, all’importanza del tempo, ci vuole spronare a dare un senso alla propria vita, mettendo in risalto che non è importante la durata di essa, ma come l’hai vissuta. Noi tutti siamo portati a pensare che la morte è lontana da noi, e siamo abituati a rimandare, dicendo: “lo farò domani”… Non deve essere così, bisogna capire che ogni minuto passato non tornerà più e non vivendolo, noi avremo perso un’occasione.
Hazel viene incoraggiata da Gus a vivere l’attimo, a guardare la vita così , come si presenta, e ad avere il bisogno di essere ricordato, il bisogno di eternità emerge costantemente nel libro/romanzo. Per Gus è quasi un’ossessione, lui vuole lasciare una traccia, un’impronta in questo mondo. Hazel all’inizio non capisce questa necessità, ma poi, con Gus la sposa e la fa propria. La nostra giovane protagonista ci dà una grande lezione di vita, ci incoraggia a non sciuparla, a tenercela stretta e a viverla attimo per attimo. Ed è proprio questo il messaggio, che questo libro/film ci vuole dare, questo è un motto che ci deve accompagnare per tutta la vita , fino alla fine dei nostri giorni , fino all’ ultimo respiro, perché la vita è una e va goduta, anche nelle difficoltà, fin quando abbiamo la possibilità di farlo, lasciando un segno di piccola eternità, in questo mondo, che possa farci ricordare.
FRANCESCA LA ROCCA
VIAGGI IN MARE CON MURUBUTU
Professore di filosofia e rapper italiano noto a tutti per la particolarità dei temi affrontati nelle sue canzoni, Alessio Mariani, in arte Murubutu, con il suo terzo album “Gli ammutinanti del Bouncin’ ovvero mirabolanti avventure di uomini e mari” ci permette di viaggiare in mare al modesto costo di un abbonamento Spotify e di un paio di auricolari. I viaggi con Murubutu sono però assai diversi da quelli che facciamo solitamente: sono accompagnati da un sottofondo musicale e narrati in rime, che spesso danno vita a poesie più che a brani musicali. Nonostante non ci sia un vero e proprio contatto con i luoghi e le persone di cui l’autore parla, non è difficile affezionarcisi e conoscere le mirabolanti avventure contenute nell’album.
Le storie di Murubutu sono molto diverse tra loro e tutte affrontano temi attuali, che portano gli uomini ad assumere posizioni contrastanti e quindi a dibattere. Ad esempio la terza traccia, ‘Isola Verde’, parla di Claudio, tormentato dalla voglia di lasciare la sua cara isola per visitare il mondo: “Claudio vuole andar via, poi non vuole andar via; Claudio cerca una via, lui cerca una via qualunque essa sia”. Quando, una volta cresciuto e diventato uomo, decide di partire, il mare glielo impedisce e lo uccide, portando il suo corpo sulla costa dell’ amata isola. Non si sanno le cause della morte di Claudio, “Chi disse che fu un uragano che colpì le coste; Chi disse che Claudio cercava la morte; Qualcuno disse che fu l’isola che non voleva che se ne andasse”. La paura di andarsene dal luogo natale è propria non solo del protagonista di ‘Isola Verde’, ma di tutti noi. Lo facciamo sia per viaggiare e vedere il mondo sia per avere un futuro migliore, nessuno riesce però a lasciare la propria casa senza soffrire.
La quinta traccia dell’album, ‘Sull’Atlantico’, affronta invece la tematica dell’immigrazione attraverso la storia di Gianni, un ragazzo siciliano costretto a emigrare in America per cercare fortuna. La canzone ha come scopo quello di descrivere la condizione degli immigrati, il loro dolore e l’integrazione. Nella parte finale del brano si gioca sul fatto che, una volta tornato a casa, in Sicilia, Gianni vede arrivare un barcone proveniente dall’Africa e sente che quelle persone sono come lui: “Gianni rivede sé stesso: il migrante ha un solo colore, un solo nome”.
Un altro tema trattato è quello della disabilità, in ‘Marco gioca sott’acqua’, sesta traccia dell’album. Marco è un ragazzo sordo, non accettato dal padre e amato solo dalla madre, per questo spesso si immerge sott’acqua, solo lì sente di essere normale e di non essere giudicato: “Sotto Marco è felice, là sotto lui è come gli altri; E non c’è niente che si muova e non lasci una scia; E non c’è niente che si muova e non apra una via”. La storia del nostro protagonista non è, tuttavia, una storia triste: infatti egli incontrerà Benedetta, una ragazza sorda, che gli permetterà di accettarsi e di amarsi così com’è.
L’album racconta di altre storie che, come queste, affrontano tematiche diverse e che sembrano non avere nulla in comune, ma non è così. Il filo che lega tutto è il mare, al quale è dedicato l’intero album. Ciò si può evincere sia dal fatto che i racconti facciano riferimento ad isole, viaggi in mare, marinai etc. sia dal fatto che ogni canzone inizi e termini con suoni che rimandano al rumore delle onde e al verso dei gabbiani. La prima traccia, ‘Introduzione’, è una citazione di Jules Verne, accompagnata da un sottofondo musicale, nella quale il mare è definito “veicolo di una vita prodigiosa, amore e moto, infinito vivente”. È un tema molto caro agli uomini, che ne sono talmente affascinati da utilizzarlo come personaggio muto nelle opere letterarie: nella Bibbia, ad esempio, è espressione della potenza divina, mentre nell’Odissea rappresenta uno degli ostacoli che l’eroe deve superare. Nel mondo dell’hip-hop il mare non rappresenta una tematica tanto comune quanto nella letteratura, e proprio qui sta la bravura di Murubutu: sfrutta la musica per affrontare situazioni e temi insoliti per questo genere, ispirandosi alla letteratura e alla storia , e crea uno stile nuovo che incuriosisce e piace ai ragazzi.
Di Elena Mazzini
Le storie di Murubutu sono molto diverse tra loro e tutte affrontano temi attuali, che portano gli uomini ad assumere posizioni contrastanti e quindi a dibattere. Ad esempio la terza traccia, ‘Isola Verde’, parla di Claudio, tormentato dalla voglia di lasciare la sua cara isola per visitare il mondo: “Claudio vuole andar via, poi non vuole andar via; Claudio cerca una via, lui cerca una via qualunque essa sia”. Quando, una volta cresciuto e diventato uomo, decide di partire, il mare glielo impedisce e lo uccide, portando il suo corpo sulla costa dell’ amata isola. Non si sanno le cause della morte di Claudio, “Chi disse che fu un uragano che colpì le coste; Chi disse che Claudio cercava la morte; Qualcuno disse che fu l’isola che non voleva che se ne andasse”. La paura di andarsene dal luogo natale è propria non solo del protagonista di ‘Isola Verde’, ma di tutti noi. Lo facciamo sia per viaggiare e vedere il mondo sia per avere un futuro migliore, nessuno riesce però a lasciare la propria casa senza soffrire.
La quinta traccia dell’album, ‘Sull’Atlantico’, affronta invece la tematica dell’immigrazione attraverso la storia di Gianni, un ragazzo siciliano costretto a emigrare in America per cercare fortuna. La canzone ha come scopo quello di descrivere la condizione degli immigrati, il loro dolore e l’integrazione. Nella parte finale del brano si gioca sul fatto che, una volta tornato a casa, in Sicilia, Gianni vede arrivare un barcone proveniente dall’Africa e sente che quelle persone sono come lui: “Gianni rivede sé stesso: il migrante ha un solo colore, un solo nome”.
Un altro tema trattato è quello della disabilità, in ‘Marco gioca sott’acqua’, sesta traccia dell’album. Marco è un ragazzo sordo, non accettato dal padre e amato solo dalla madre, per questo spesso si immerge sott’acqua, solo lì sente di essere normale e di non essere giudicato: “Sotto Marco è felice, là sotto lui è come gli altri; E non c’è niente che si muova e non lasci una scia; E non c’è niente che si muova e non apra una via”. La storia del nostro protagonista non è, tuttavia, una storia triste: infatti egli incontrerà Benedetta, una ragazza sorda, che gli permetterà di accettarsi e di amarsi così com’è.
L’album racconta di altre storie che, come queste, affrontano tematiche diverse e che sembrano non avere nulla in comune, ma non è così. Il filo che lega tutto è il mare, al quale è dedicato l’intero album. Ciò si può evincere sia dal fatto che i racconti facciano riferimento ad isole, viaggi in mare, marinai etc. sia dal fatto che ogni canzone inizi e termini con suoni che rimandano al rumore delle onde e al verso dei gabbiani. La prima traccia, ‘Introduzione’, è una citazione di Jules Verne, accompagnata da un sottofondo musicale, nella quale il mare è definito “veicolo di una vita prodigiosa, amore e moto, infinito vivente”. È un tema molto caro agli uomini, che ne sono talmente affascinati da utilizzarlo come personaggio muto nelle opere letterarie: nella Bibbia, ad esempio, è espressione della potenza divina, mentre nell’Odissea rappresenta uno degli ostacoli che l’eroe deve superare. Nel mondo dell’hip-hop il mare non rappresenta una tematica tanto comune quanto nella letteratura, e proprio qui sta la bravura di Murubutu: sfrutta la musica per affrontare situazioni e temi insoliti per questo genere, ispirandosi alla letteratura e alla storia , e crea uno stile nuovo che incuriosisce e piace ai ragazzi.
Di Elena Mazzini
IN MEZZO AI SANPIETRINI
Nel processo trap che sta coinvolgendo la musica mondiale, l’Italia sta ricoprendo un ruolo marginale: Ghali è un fenomeno pop, Sfera Ebbasta vive tra collaborazione internazionali e polemiche, la Dark Polo Gang supera gli eccessi, e i “ vecchi” nomi dell’hip-hop cercano una ribalta provando a sfondare nella nuova scena.
Travis Scott, Drake e Lil Pump non ci appartengono, neanche riuscirebbero ad affermarsi in un Paese con questa cultura musicale. Eppure nel panorama della musica “per giovani” fanno capolino da Trastevere i più grandi esponenti della trap controcorrente: la lovegang. Il nome parla da sé, non si tratta di mera mitizzazione del sesso, dei soldi, della droga e delle auto di lusso. Ascoltare una canzone di Ketama, di Pretty Solero, dei più “indie” Carl Brave e Franco, trasporta l’orecchio, e con quello l’anima, in una dimensione romantica. Non si astengono dal parlare di come siano finiti a riempire i locali e di come le sostanze stupefacenti li abbiano consumati in vent’anni, ma la vita di strada, tra i graffiti, gli abiti larghi, Califano, il grunge e qualche bicchiere di troppo, si traduce in dediche d’amore, stralci di vita quotidiana, sofferenze per una ragazza che si fa desiderare e gli amici che consolano su un marciapiedi.
Forse i 126 gradini che hanno fatto incontrare questi ragazzi fuori dalle righe sono la dimostrazione di come la trap non sia musica diabolica o di morte, e che anche dall’asfalto, o meglio dai sanpietrini, possono nascere i fiori.
Di Vito Gulfo
Travis Scott, Drake e Lil Pump non ci appartengono, neanche riuscirebbero ad affermarsi in un Paese con questa cultura musicale. Eppure nel panorama della musica “per giovani” fanno capolino da Trastevere i più grandi esponenti della trap controcorrente: la lovegang. Il nome parla da sé, non si tratta di mera mitizzazione del sesso, dei soldi, della droga e delle auto di lusso. Ascoltare una canzone di Ketama, di Pretty Solero, dei più “indie” Carl Brave e Franco, trasporta l’orecchio, e con quello l’anima, in una dimensione romantica. Non si astengono dal parlare di come siano finiti a riempire i locali e di come le sostanze stupefacenti li abbiano consumati in vent’anni, ma la vita di strada, tra i graffiti, gli abiti larghi, Califano, il grunge e qualche bicchiere di troppo, si traduce in dediche d’amore, stralci di vita quotidiana, sofferenze per una ragazza che si fa desiderare e gli amici che consolano su un marciapiedi.
Forse i 126 gradini che hanno fatto incontrare questi ragazzi fuori dalle righe sono la dimostrazione di come la trap non sia musica diabolica o di morte, e che anche dall’asfalto, o meglio dai sanpietrini, possono nascere i fiori.
Di Vito Gulfo
L'età dell'oro
Ogni epoca ha il suo fascino. Malgrado ognuno di noi possa avere delle preferenze in merito, non si può affermare con assoluta fermezza che vi sia stato un periodo negativo in ogni suo aspetto; al contempo, a chiunque decanti un’era come se si trattasse di “anni d’oro” potrebbe sfuggire qualcosa. Forse più di qualcosa.
Di primo acchito, sembra essere una delle tante e, purtroppo, fin troppo banali commedie romantiche, eppure “Midnight in Paris”, capolavoro di Woody Allen, cela riflessioni esistenziali di rara profondità.
Gil, il protagonista, è il tipico/topico scrittore americano che, benché trabocchi di passione, non riesce a scalare l’agognata montagna del successo. Insoddisfatto, fallito e oppresso da una quasi moglie che conduce la propria esistenza all’insegna della superficialità, conserva ormai un solo mito in cui riesce a trovare un illusorio rifugio: la Parigi degli anni 20. Lì sì che sarebbe stato felice, la radice di ogni problema è nell’epoca in cui è malauguratamente nato! O tempora, o mores!
Eppure, un bel giorno, anzi, una “bella notte”, Gil, in vacanza a Parigi assieme alla fidanzata e ai “suoceri capitalisti” (che tollera ben poco), si perde tra gli interminabili rivoli di strade della capitale francese. È mezzanotte in punto. Arriva un taxi. È tutto così strano: si tratta di una macchina d’epoca, della “sua” epoca. Anche le persone indossano degli abiti insoliti.
I suoi sogni si saranno forse avverati?
E così Gil inizia ad andare ogni sera nel medesimo luogo. E ogni sera, alle 24:00 in punto, quelli che fino ad un attimo prima erano stati i sogni di un illuso divengono attimi concreti, esperienze reali: Ernest Hemingway, Salvador Dalí, Francis Scott Fitzgerald, Pablo Picasso non sono più ombre di persone morte da tempo; sono lì, al suo cospetto, respirano. E respira anche Adriana, compagna di Picasso e di Amedeo Modigliani.
E chi respira può parlare, forse anche amare e sognare, al di là del tempo.
Gli idoli di Gil vivono la medesima insoddisfazione nei confronti di un’epoca che “da lontano” appariva così affascinante. E se anche gli “idoli degli idoli” avessero provato un simile biasimo per il proprio presente a fronte di un mitico passato? Un’età dell’oro forse esiste, forse no, non ci è dato saperlo; possiamo solo tentare di viverla, nell’unico tempo che abbiamo a disposizione, il nostro: il presente.
Di Anna Dalessandri
Pretty Little Liars
Pretty Little Liars è una serie televisiva statunitense di genere thriller, giallo e teen drama trasmessa dal 2010 al 2017 su siti streaming e canali televisivi. Questa serie tv narra le vicende di quattro ragazze: Spencer Hastings (Troian Bellisario), Hanna Marin (Ashley Benson), Aria Montgomery (Lucy Hale) ed Emily Fields (Shay Mitchell) che hanno Intrapreso strade diverse dopo la scomparsa di Alison DiLaurentis (Sasha Pietrese), la loro “ape regina”.
Quando il corpo di Alison viene ritrovato, le quattro ragazze si riuniscono e iniziano a ricevere i messaggi di un’anonima “A”, che conosce i loro segreti più oscuri e profondi, noti soltanto a Alison. Per le ragazze è l’inizio di una lunga e costante vessazione da parte della misteriosa “A”.
Nel corso della sesta stagione, le protagoniste scoprono finalmente che a perseguitarle per cinque lunghi anni è stata Charlotte DiLaurentis (Vanessa Ray), la presunta sorella di Alison. Quando Charlotte muore in circostanze misteriose, le ragazze credono che il loro incubo sia finito, ma inaspettatamente si ritrovano a essere vittime di un nuovo stalker, la misteriosa “AD”.
Ma chi si nasconde dietro la nuova minaccia? Per riuscire a scoprirlo, le ragazze saranno disposte a tutto e si troveranno costrette ad attraversare una soglia che, una volta varcata, non permetterà loro di tornare indietro.
La settima stagione di Pretty Little Liars vedrà in scena nuovi protagonisti (ad esempio Addison, una nuova bulletta che ricorda molto la Alison delle prime stagioni), ma anche ritorni inaspettati, riavvolgendo il filo delle stagioni precedenti e chiarendo questioni lasciate precedentemente in sospeso.
Hanna è stata rapita. Il Dottor Rollins, marito di Alison dalla stagione precedente, è ricercato.
L’unione del gruppo verrà messa in discussione dal succedersi di eventi e da un perverso gioco architettato da “AD”, convinto che le ragazze sappiano chi si nasconde dietro l’assassinio di Charlotte.
Questa serie televisiva è stata ideata da Marlene King, traendo spunto dalla serie di libri scritti da Sara Shepard e pubblicati in seguito in Italia con il titolo di “Giovani, carine e bugiarde”. Nel cast vediamo partecipi anche Janel Parrish (Mona Vanderwaal), Ian Harding (Ezra Fitz), Tyler Blackburn (Caleb Rives), Andrea Parker (Mary Dreke) e la new entry Nicholas Gonzales che vestirà i panni del nuovo poliziotto (Vic Furey).
Tutto questo si svolge in a Rosewood, una piccola città immaginaria della Pennsylvania, dove le cinque amiche vivono fino alle fine del quinto anno del Liceo.
Di Chiara Lauletta
Quando il corpo di Alison viene ritrovato, le quattro ragazze si riuniscono e iniziano a ricevere i messaggi di un’anonima “A”, che conosce i loro segreti più oscuri e profondi, noti soltanto a Alison. Per le ragazze è l’inizio di una lunga e costante vessazione da parte della misteriosa “A”.
Nel corso della sesta stagione, le protagoniste scoprono finalmente che a perseguitarle per cinque lunghi anni è stata Charlotte DiLaurentis (Vanessa Ray), la presunta sorella di Alison. Quando Charlotte muore in circostanze misteriose, le ragazze credono che il loro incubo sia finito, ma inaspettatamente si ritrovano a essere vittime di un nuovo stalker, la misteriosa “AD”.
Ma chi si nasconde dietro la nuova minaccia? Per riuscire a scoprirlo, le ragazze saranno disposte a tutto e si troveranno costrette ad attraversare una soglia che, una volta varcata, non permetterà loro di tornare indietro.
La settima stagione di Pretty Little Liars vedrà in scena nuovi protagonisti (ad esempio Addison, una nuova bulletta che ricorda molto la Alison delle prime stagioni), ma anche ritorni inaspettati, riavvolgendo il filo delle stagioni precedenti e chiarendo questioni lasciate precedentemente in sospeso.
Hanna è stata rapita. Il Dottor Rollins, marito di Alison dalla stagione precedente, è ricercato.
L’unione del gruppo verrà messa in discussione dal succedersi di eventi e da un perverso gioco architettato da “AD”, convinto che le ragazze sappiano chi si nasconde dietro l’assassinio di Charlotte.
Questa serie televisiva è stata ideata da Marlene King, traendo spunto dalla serie di libri scritti da Sara Shepard e pubblicati in seguito in Italia con il titolo di “Giovani, carine e bugiarde”. Nel cast vediamo partecipi anche Janel Parrish (Mona Vanderwaal), Ian Harding (Ezra Fitz), Tyler Blackburn (Caleb Rives), Andrea Parker (Mary Dreke) e la new entry Nicholas Gonzales che vestirà i panni del nuovo poliziotto (Vic Furey).
Tutto questo si svolge in a Rosewood, una piccola città immaginaria della Pennsylvania, dove le cinque amiche vivono fino alle fine del quinto anno del Liceo.
Di Chiara Lauletta
BLOW UP, L'ESSERE E IL NULLA
A 51 anni dall'uscita del capolavoro pop- art di Michelangelo Antonioni mi chiedo in che termini sia ancora attuale questo film che racconta la Londra swinging degli anni 60, una città all'apparenza caotica e piena di ottimismo verso nuove tendenze culturali in cui si cela però una perdita di senso del reale.
Thomas è un fotografo combattuto tra l'urgenza neorealista di raccontare la realtà in modo oggettivo e il bisogno di vedere più da vicino, di cogliere il noumeno sotto il fenomeno. Egli vuole realizzare un fotolibro sui poveri nel modo più crudo e reale possibile. Passa la notte in un dormitorio e il giorno dopo, in un parco, fotografa una coppia di amanti, colpito dalla loro naturalezza e dalla luce del mattino che li incoronava. Dopo aver sviluppato le foto nel suo studio, applicando la tecnica del blow-up, che consente, mediante più ingrandimenti, di mettere a fuoco oggetti vicini fino all'astrazione, si rende conto di una sagoma di un cadavere: ha assistito a un omicidio di cui si è reso conto a posteriori rispetto alla produzione meccanica che ne ha fatto. La realtà muta continuamente sotto i suoi occhi. Nella sequenza finale Thomas assiste assiste a una finta partita di tennis tra mimi. Tutti seguono la pallina invisibile con lo sguardo. Quando la pallina esce fuori campo e viene chiesto a Thomas di andare a riprenderla, egli deve scegliere se rimandare la pallina in campo accettando la finzione, oppure interrompere questo gioco dell'assurdo. Trasposto in termini filosofici, ciò significa affermare il dominio della razionalità cercando comunque un senso, oppure accettare il continuo mutamento nel quale il mondo riversa. Egli recupera la non-pallina in un punto preciso del prato, la rilancia e inizia a sentire il suono di essa battuta dalle racchette. Con un barlume di lucidità si rende conto della vastità del nulla che lo circonda;in quel momento inizia a sparire nel prato verde in cui si trovava.
La fine del Neorealismo è segnata dai giovani mimi mascherati che aprono e chiudono il film, che somigliano un po' ai Drughi di Arancia meccanica, gli unici ad aver colto la perdita del senso in cui versa la società occidentale e indecifrabilità del mondo. Con una brillante provocazione a 400 anni di metodo scientifico, Antonioni ci rivela che astraendo il fenomeno il più possibile dalle circostanze disturbanti, gli "attriti", il nulla si rivela. Questo giallo che potrebbe sembrare hitchcockiano e in realtà nulla ha a che fare con Hitchcock, si risolve nel fallimento di Tomas nel cercare disperatamente il reale, che rappresenta il fallimento dell'umanità nel cercare di scomporre la realtà fino all'astrazione, come i blow-up. Ogni immagine rimanda ad altro, costringendo l'uomo a girare a vuoto. I nostri sensi c' ingannano, le esperienze quotidiane possono ingannare. Spesso per cogliere la struttura e meccanismi nascosti della realtà bisogna guardarla anche dal di dentro, non solo con il distaccato obiettivo di una macchina da presa o eliminandone le circostanze di disturbo, ma attraverso la soggettività di ognuno, perché sono le suddette circostanze e l'auto- trasformazione del contenuto di ogni soggetto a rendere la realtà mutante e dinamica quale è. Ma dunque esiste una verità immutabile? Si può avere un'intuizione della verità nell'arte, che altro non è che un'osmosi misteriosa tra oggetto considerato e realtà soggettiva, un legame che si crea spesso fuori dalla volontà cosciente dell'artista che crea. Non esiste invece un'essenza, dal momento che tutte le cose che esistono, essendo costituite da elementi e forze in opposizione, sono caratterizzate da un'unità temporanea, mentre il processo di mutamento è continuo
Di Anna Giordano
Thomas è un fotografo combattuto tra l'urgenza neorealista di raccontare la realtà in modo oggettivo e il bisogno di vedere più da vicino, di cogliere il noumeno sotto il fenomeno. Egli vuole realizzare un fotolibro sui poveri nel modo più crudo e reale possibile. Passa la notte in un dormitorio e il giorno dopo, in un parco, fotografa una coppia di amanti, colpito dalla loro naturalezza e dalla luce del mattino che li incoronava. Dopo aver sviluppato le foto nel suo studio, applicando la tecnica del blow-up, che consente, mediante più ingrandimenti, di mettere a fuoco oggetti vicini fino all'astrazione, si rende conto di una sagoma di un cadavere: ha assistito a un omicidio di cui si è reso conto a posteriori rispetto alla produzione meccanica che ne ha fatto. La realtà muta continuamente sotto i suoi occhi. Nella sequenza finale Thomas assiste assiste a una finta partita di tennis tra mimi. Tutti seguono la pallina invisibile con lo sguardo. Quando la pallina esce fuori campo e viene chiesto a Thomas di andare a riprenderla, egli deve scegliere se rimandare la pallina in campo accettando la finzione, oppure interrompere questo gioco dell'assurdo. Trasposto in termini filosofici, ciò significa affermare il dominio della razionalità cercando comunque un senso, oppure accettare il continuo mutamento nel quale il mondo riversa. Egli recupera la non-pallina in un punto preciso del prato, la rilancia e inizia a sentire il suono di essa battuta dalle racchette. Con un barlume di lucidità si rende conto della vastità del nulla che lo circonda;in quel momento inizia a sparire nel prato verde in cui si trovava.
La fine del Neorealismo è segnata dai giovani mimi mascherati che aprono e chiudono il film, che somigliano un po' ai Drughi di Arancia meccanica, gli unici ad aver colto la perdita del senso in cui versa la società occidentale e indecifrabilità del mondo. Con una brillante provocazione a 400 anni di metodo scientifico, Antonioni ci rivela che astraendo il fenomeno il più possibile dalle circostanze disturbanti, gli "attriti", il nulla si rivela. Questo giallo che potrebbe sembrare hitchcockiano e in realtà nulla ha a che fare con Hitchcock, si risolve nel fallimento di Tomas nel cercare disperatamente il reale, che rappresenta il fallimento dell'umanità nel cercare di scomporre la realtà fino all'astrazione, come i blow-up. Ogni immagine rimanda ad altro, costringendo l'uomo a girare a vuoto. I nostri sensi c' ingannano, le esperienze quotidiane possono ingannare. Spesso per cogliere la struttura e meccanismi nascosti della realtà bisogna guardarla anche dal di dentro, non solo con il distaccato obiettivo di una macchina da presa o eliminandone le circostanze di disturbo, ma attraverso la soggettività di ognuno, perché sono le suddette circostanze e l'auto- trasformazione del contenuto di ogni soggetto a rendere la realtà mutante e dinamica quale è. Ma dunque esiste una verità immutabile? Si può avere un'intuizione della verità nell'arte, che altro non è che un'osmosi misteriosa tra oggetto considerato e realtà soggettiva, un legame che si crea spesso fuori dalla volontà cosciente dell'artista che crea. Non esiste invece un'essenza, dal momento che tutte le cose che esistono, essendo costituite da elementi e forze in opposizione, sono caratterizzate da un'unità temporanea, mentre il processo di mutamento è continuo
Di Anna Giordano
WALTER WHITE, OGNI UOMO
20 gennaio, domenica; una domenica come tante, agli albori del 2008. Eppure proprio quel giorno, su un’emittente televisiva statunitense ebbe inizio qualcosa che di televisivo, inteso nell’accezione più comune del termine, incarna ben poco. Siamo abituati a una televisione che tende ad intrattenere, distrarre; a una televisione il cui fine ultimo è estraniarci dal reale, malgrado ci dia una fallace sensazione di appartenenza ad un mondo che non esiste.
Quel 20 gennaio, coloro che decisero di guardarequell’episodio “pilota” intrapresero, con ogni probabilità a propria insaputa, un percorso che li avrebbe condotti nei più oscuri e profondi anfratti della natura umana. Benché Breaking Bad sia iniziata come storia di un personaggio, Walter White, uomo qualunque, professore di chimica delle scuole superiori, fin dal principio quel personaggio iniziò ad assumere i connotati di individuo reale: sarebbe potuto essere il nostro dirimpettaio, un nostro amico, un conoscente, ognuno di noi; non il classico personaggio affascinante delle soap opera (purtroppo ancora adesso sono in molti a confondere le serie di qualità con questi meri prodotti commerciali), ma una figura “anonima”, il tipo di uomo che, nel caso in cui lo incontrassimo per strada, ne dimenticheremmo i connotati un isolato più avanti; un uomo sposato, con un figlio affetto da paralisi e una figlia in arrivo; un uomo con il cancro ai polmoni.
Ecco, siamo giunti al punto di rottura: una diagnosi che irruppe in una vita tranquilla, per certi versi frustrante, di un uomo per cui la famiglia rappresentava quanto di più importante esistesse; e proprio in virtù della salvaguardia del nido ebbe inizio la “discesa agli inferi” del professore, dalla cui mente iniziarono ad emergere gli istinti più ancestrali, a dispetto di qualsiasi morale. E così il buon Walter iniziò a cucinare. Cosa potrebbe mai cucinare un chimico? Forse hamburger e patatine? No.
Il nostro mite ipotetico vicino di casa cominciò a produrre ciò con la cui vendita avrebbe potuto garantire la sopravvivenza della specie -la sicurezza economica per la sua famiglia, metanfetamine. E fu così che chiunque stesse partecipando alle vicende di Walt attraverso uno schermo cadde nel baratro assieme a lui. Fino a quando, Signor White, avresti voluto reprimere le tue ambizioni? Quelle ambizioni fecero irruzione, in un primo momento celate sotto il dolore per una diagnosi di morte probabile, con annessa miseria per la vedova, Skyler, e per gli orfani, con il trascorrere del tempo, in modo sempre più brutale. Walt non cambiò, divenne un altro: Heisenberg. E in una certa misura Breaking Bad, oltre al protagonista, mutò anche le dinamiche fondamentali nel rapporto tra eventi e spettatori. Sempre abituati a supportare figure ineccepibili dal punto di vista etico, ci trovammo ad identificarci in un vero e proprio antieroe.
Il confine tra bene e male che fino ad allora era stato tracciato da un solco profondo divenne sempre più labile, fino a quando il solco non si riempì del tutto e lasciò soltanto un’ombra inconsistente di ciò che era stato. Cosa è giusto? Chi sono i buoni? Chi sono i cattivi? Quella sera di gennaio, alcuni americani decisero di guardare una nuova serie sul canale “AMC”: furono i primi a sprofondare assieme a Walt.
A dieci anni di distanza, chiunque ancora non abbia guardato questo capolavoro dovrebbe rimediare: in fin dei conti, di quegli interrogativi, che Breaking Bad conduce al culmine, attraverso un climax ascendente, la vita ne è piena.
Di Anna Dalessandri
Quel 20 gennaio, coloro che decisero di guardarequell’episodio “pilota” intrapresero, con ogni probabilità a propria insaputa, un percorso che li avrebbe condotti nei più oscuri e profondi anfratti della natura umana. Benché Breaking Bad sia iniziata come storia di un personaggio, Walter White, uomo qualunque, professore di chimica delle scuole superiori, fin dal principio quel personaggio iniziò ad assumere i connotati di individuo reale: sarebbe potuto essere il nostro dirimpettaio, un nostro amico, un conoscente, ognuno di noi; non il classico personaggio affascinante delle soap opera (purtroppo ancora adesso sono in molti a confondere le serie di qualità con questi meri prodotti commerciali), ma una figura “anonima”, il tipo di uomo che, nel caso in cui lo incontrassimo per strada, ne dimenticheremmo i connotati un isolato più avanti; un uomo sposato, con un figlio affetto da paralisi e una figlia in arrivo; un uomo con il cancro ai polmoni.
Ecco, siamo giunti al punto di rottura: una diagnosi che irruppe in una vita tranquilla, per certi versi frustrante, di un uomo per cui la famiglia rappresentava quanto di più importante esistesse; e proprio in virtù della salvaguardia del nido ebbe inizio la “discesa agli inferi” del professore, dalla cui mente iniziarono ad emergere gli istinti più ancestrali, a dispetto di qualsiasi morale. E così il buon Walter iniziò a cucinare. Cosa potrebbe mai cucinare un chimico? Forse hamburger e patatine? No.
Il nostro mite ipotetico vicino di casa cominciò a produrre ciò con la cui vendita avrebbe potuto garantire la sopravvivenza della specie -la sicurezza economica per la sua famiglia, metanfetamine. E fu così che chiunque stesse partecipando alle vicende di Walt attraverso uno schermo cadde nel baratro assieme a lui. Fino a quando, Signor White, avresti voluto reprimere le tue ambizioni? Quelle ambizioni fecero irruzione, in un primo momento celate sotto il dolore per una diagnosi di morte probabile, con annessa miseria per la vedova, Skyler, e per gli orfani, con il trascorrere del tempo, in modo sempre più brutale. Walt non cambiò, divenne un altro: Heisenberg. E in una certa misura Breaking Bad, oltre al protagonista, mutò anche le dinamiche fondamentali nel rapporto tra eventi e spettatori. Sempre abituati a supportare figure ineccepibili dal punto di vista etico, ci trovammo ad identificarci in un vero e proprio antieroe.
Il confine tra bene e male che fino ad allora era stato tracciato da un solco profondo divenne sempre più labile, fino a quando il solco non si riempì del tutto e lasciò soltanto un’ombra inconsistente di ciò che era stato. Cosa è giusto? Chi sono i buoni? Chi sono i cattivi? Quella sera di gennaio, alcuni americani decisero di guardare una nuova serie sul canale “AMC”: furono i primi a sprofondare assieme a Walt.
A dieci anni di distanza, chiunque ancora non abbia guardato questo capolavoro dovrebbe rimediare: in fin dei conti, di quegli interrogativi, che Breaking Bad conduce al culmine, attraverso un climax ascendente, la vita ne è piena.
Di Anna Dalessandri
LA MUSICA COME MEZZO DI COMUNICAZIONE
A tutti è ormai noto come la musica sia considerata un mezzo di comunicazione per diffondere qualunque tipo di messaggio; ma come musica non si intende solo lo spartito crudo e monotono e lo strumento che si suona: la musica è il sentimento, la musica è un discorso di libertà pieno di significato. Afferrare uno strumento significa tramutare le note che escono in uno stato emotivo.
Lo vediamo soprattutto con il genere Reggae creato dal leggendario Bob Marley, da poco dichiarato patrimonio della Giamaica, che nel corso degli anni ha mosso veri e propri movimenti rivoluzionari. Infatti le canzoni che lui scriveva erano piene di significato, come “No woman no cry” che si rifaceva alla violenza sulle donne.
La Musica nel corso dei secoli è stata caratterizzata da contaminazioni e prestiti, rappresentando uno dei principali canali di integrazione tra diverse culture. Sono infatti le armonie e le melodie a comporre per eccellenza il linguaggio universale della musica, condiviso e comprensibile a tutti. Oppure, per fare un altro esempio, possiamo citare gli “U.S.A for Africa” che con il loro celebre pezzo “We are the world” hanno incantato il mondo, o anche Michael Jackson con “Heal the world”.
Inoltre la musica nel periodo della schiavitù rappresentava la sofferenza dei lavoratori che raccoglievano cotone nei campi; quindi si può affermare che la musica ha fatto il suo cammino nella storia, passando dalla preistoria, dove gli uomini primitivi battevano su antichi strumenti per ricordare le scene di caccia, arrivando ai romani che negli schieramenti avevano inserito dei tamburisti. Però le vere stelle della musica si sono viste nel secolo scorso, che si potrebbe definire l’età dell’oro della musica.
Di Matteo Moscogiuri
A tutti è ormai noto come la musica sia considerata un mezzo di comunicazione per diffondere qualunque tipo di messaggio; ma come musica non si intende solo lo spartito crudo e monotono e lo strumento che si suona: la musica è il sentimento, la musica è un discorso di libertà pieno di significato. Afferrare uno strumento significa tramutare le note che escono in uno stato emotivo.
Lo vediamo soprattutto con il genere Reggae creato dal leggendario Bob Marley, da poco dichiarato patrimonio della Giamaica, che nel corso degli anni ha mosso veri e propri movimenti rivoluzionari. Infatti le canzoni che lui scriveva erano piene di significato, come “No woman no cry” che si rifaceva alla violenza sulle donne.
La Musica nel corso dei secoli è stata caratterizzata da contaminazioni e prestiti, rappresentando uno dei principali canali di integrazione tra diverse culture. Sono infatti le armonie e le melodie a comporre per eccellenza il linguaggio universale della musica, condiviso e comprensibile a tutti. Oppure, per fare un altro esempio, possiamo citare gli “U.S.A for Africa” che con il loro celebre pezzo “We are the world” hanno incantato il mondo, o anche Michael Jackson con “Heal the world”.
Inoltre la musica nel periodo della schiavitù rappresentava la sofferenza dei lavoratori che raccoglievano cotone nei campi; quindi si può affermare che la musica ha fatto il suo cammino nella storia, passando dalla preistoria, dove gli uomini primitivi battevano su antichi strumenti per ricordare le scene di caccia, arrivando ai romani che negli schieramenti avevano inserito dei tamburisti. Però le vere stelle della musica si sono viste nel secolo scorso, che si potrebbe definire l’età dell’oro della musica.
Di Matteo Moscogiuri
SUFFRAGETTE
Il film di Sara Gavron analizza e valorizza l’operato di queste coraggiose eroine.
“Deeds not words!”: questo era il motto che riecheggiava nelle strade londinesi dei primi anni del 1900. Lo slogan era stato coniato da Emmeline Pankhurst, fondatrice della WSPU (Women’s Social and Political Union) e leader delle suffragette. “Suffragette” è il film di Sarah Gavron che nel 2015 ridiede voce a quelle donne che in passato avevano rischiato la propria vita pur di ottenere il diritto al voto. Attraverso la storia della protagonista, la timida Maud, la Gavron ripercorre gli eventi più importanti della rivoluzione che portò al suffragio femminile in Inghilterra. Le donne del film, interpretate da celebri attrici quali Helena Bonham Carter, Carey Mulligan e Meryl Streep, non sono altro che la rappresentazione cinematografica delle lotte, dei soprusi subiti che ci permettono tutt’oggi di esercitare il voto. Le suffragette erano operaie, ma anche donne nobili che stavano rivalutando i propri valori e affermando la propria posizione sociale. In un primo momento le eroine inglesi si limitarono a marce, a proteste pacifiche e a pubblicazioni di articoli sulla rivista “The Freewomen”. Tutto ciò si rivelò inutile: la maggior parte degli uomini al potere non dava ascolto alle urla incombenti delle donne, che furono costrette a ricorrere ai mezzi pesanti. Gli atti di vandalismo di queste coraggiose guerrigliere furono molti e vari: passarono dal rompere cavi telefonici all’incendiare case di politici, dal frantumare le vetrine dei negozi al suicidarsi durante una corsa di cavalli. Tutte queste azioni erano volte ad unico e semplice scopo: l’esercizio del voto. Vi starete certamente chiedendo: “la società come reagì dinnanzi a queste pazze donne che volevano cambiarla completamente?” La risposta sta proprio nel film della Gavron, che non si limita a documentare i fatti, ma che, attraverso la storia romanzata di Maud, fa anche un’analisi della società londinese del 1913. La collettività non aveva affatto una buona considerazione delle suffragette: erano infatti denigrate, picchiate dai propri mariti perché ritenute mogli e madri incapaci, licenziate dai propri datori di lavoro, ma soprattutto temute dalle autorità, che pur di azzittirle commettevano gravi atti di violenza nei loro confronti. Spesso erano arrestate, ma anche in carcere tentavano di perseverare nella loro causa con scioperi della fame e altri boicottaggi. Le autorità così ricorrevano all’alimentazione forzata attraverso tubi passanti per il naso. Nonostante tutto le nostre eroine non si arresero, sia perché credevano davvero in ciò che facevano sia grazie alla loro leader carismatica e amata: Emmeline Pankhurst. Il personaggio della Pankhurst, sebbene appaia solamente in poche scene del film, è presente durante tutta la storia: è come se fosse il motore di una macchina che le permette di muoversi. Anche quando la leader proponeva sabotaggi pericolosi, le suffragette, per la stima che avevano riposto in lei e per vedere realizzarsi il proprio sogno, non si tiravano mai indietro. Proprio grazie alla loro perseveranza riusciranno ad ottenere prima il suffragio femminile per le ultratrentenni sposate (1918) e poi per tutte le donne (2 luglio 1928). L’ Inghilterra fu uno dei primi Paesi che ottenne il suffragio femminile, il primo fu la Nuova Zelanda (1893). Il nostro Paese dovrà aspettare fino al 1946: la prima elezione politica a cui presero parte le donne italiane fu il Referendum istituzionale Monarchia-Repubblica. Non si sarebbero raggiunti tutti questi traguardi senza il sacrificio, le lacrime, la disperazione, il sangue, la morte delle suffragette. Lo scopo del film di Sarah Gavron è proprio quello di ricordare queste eroine e imparare da loro: è un invito a tutte le donne a reagire alle ingiustizie ancora presenti e a combatterle, magari rischiando la vita, come ha fatto chi prima di noi per la nostra libertà.
Di Elena Mazzini
“Deeds not words!”: questo era il motto che riecheggiava nelle strade londinesi dei primi anni del 1900. Lo slogan era stato coniato da Emmeline Pankhurst, fondatrice della WSPU (Women’s Social and Political Union) e leader delle suffragette. “Suffragette” è il film di Sarah Gavron che nel 2015 ridiede voce a quelle donne che in passato avevano rischiato la propria vita pur di ottenere il diritto al voto. Attraverso la storia della protagonista, la timida Maud, la Gavron ripercorre gli eventi più importanti della rivoluzione che portò al suffragio femminile in Inghilterra. Le donne del film, interpretate da celebri attrici quali Helena Bonham Carter, Carey Mulligan e Meryl Streep, non sono altro che la rappresentazione cinematografica delle lotte, dei soprusi subiti che ci permettono tutt’oggi di esercitare il voto. Le suffragette erano operaie, ma anche donne nobili che stavano rivalutando i propri valori e affermando la propria posizione sociale. In un primo momento le eroine inglesi si limitarono a marce, a proteste pacifiche e a pubblicazioni di articoli sulla rivista “The Freewomen”. Tutto ciò si rivelò inutile: la maggior parte degli uomini al potere non dava ascolto alle urla incombenti delle donne, che furono costrette a ricorrere ai mezzi pesanti. Gli atti di vandalismo di queste coraggiose guerrigliere furono molti e vari: passarono dal rompere cavi telefonici all’incendiare case di politici, dal frantumare le vetrine dei negozi al suicidarsi durante una corsa di cavalli. Tutte queste azioni erano volte ad unico e semplice scopo: l’esercizio del voto. Vi starete certamente chiedendo: “la società come reagì dinnanzi a queste pazze donne che volevano cambiarla completamente?” La risposta sta proprio nel film della Gavron, che non si limita a documentare i fatti, ma che, attraverso la storia romanzata di Maud, fa anche un’analisi della società londinese del 1913. La collettività non aveva affatto una buona considerazione delle suffragette: erano infatti denigrate, picchiate dai propri mariti perché ritenute mogli e madri incapaci, licenziate dai propri datori di lavoro, ma soprattutto temute dalle autorità, che pur di azzittirle commettevano gravi atti di violenza nei loro confronti. Spesso erano arrestate, ma anche in carcere tentavano di perseverare nella loro causa con scioperi della fame e altri boicottaggi. Le autorità così ricorrevano all’alimentazione forzata attraverso tubi passanti per il naso. Nonostante tutto le nostre eroine non si arresero, sia perché credevano davvero in ciò che facevano sia grazie alla loro leader carismatica e amata: Emmeline Pankhurst. Il personaggio della Pankhurst, sebbene appaia solamente in poche scene del film, è presente durante tutta la storia: è come se fosse il motore di una macchina che le permette di muoversi. Anche quando la leader proponeva sabotaggi pericolosi, le suffragette, per la stima che avevano riposto in lei e per vedere realizzarsi il proprio sogno, non si tiravano mai indietro. Proprio grazie alla loro perseveranza riusciranno ad ottenere prima il suffragio femminile per le ultratrentenni sposate (1918) e poi per tutte le donne (2 luglio 1928). L’ Inghilterra fu uno dei primi Paesi che ottenne il suffragio femminile, il primo fu la Nuova Zelanda (1893). Il nostro Paese dovrà aspettare fino al 1946: la prima elezione politica a cui presero parte le donne italiane fu il Referendum istituzionale Monarchia-Repubblica. Non si sarebbero raggiunti tutti questi traguardi senza il sacrificio, le lacrime, la disperazione, il sangue, la morte delle suffragette. Lo scopo del film di Sarah Gavron è proprio quello di ricordare queste eroine e imparare da loro: è un invito a tutte le donne a reagire alle ingiustizie ancora presenti e a combatterle, magari rischiando la vita, come ha fatto chi prima di noi per la nostra libertà.
Di Elena Mazzini
Figlie del mare: pagine strazianti di Storia dimenticata
Figlie del mare è il romanzo d’esordio di Mary Lynn Bracht, scrittrice americana di origini coreane. In Italia arriva nell’aprile del 2018 ed è diventato subito un caso letterario.
Attraverso le pagine di questo romanzo l’autrice ha dato forma e memoria a un aspetto brutale e straziante della Storia: la prostituzione. Una tematica senz’altro scottante e pungente perché la Bracht parla di Comfort Women, bambine e ragazze rapite e ridotte in schiavitù sessuale durante la seconda guerra mondiale. Ma la prostituzione di cui parla l’esordiente scrittrice non è quella a noi più nota che ha riguardato la Storia del nostro paese o del nostro continente: forse anche a causa delle sue origini, Mary Lynn Bracht racconta le esperienze di giovani donne che dalla Corea venivano rapite, strappate alle loro vite e condotte nei peggiori bordelli della Manciuria, per soddisfare i brutali appetiti di eserciti orientali in espansione.
La storia è quella di Hana ed Emi, due sorelle Haenyeo, separate da Morimoto, un soldato giapponese che, invaghitosi di Hana, la rapisce per trasformarla nella sua concubina e nella prostituta di molti. Emi non saprà mai nulla di ciò che accade alla sorella da quel momento in poi, ne tace addirittura l’esistenza con i suoi figli, ma non smetterà mai di cercarla, fino alla fine dei suoi giorni.
Con una prosa leggera, ma dal fortissimo impatto emotivo, l’autrice ha saputo trasmettere magistralmente la brutalità di una guerra di cui molto spesso conosciamo soltanto le grandi conseguenze in ambito europeo. Oltre ad apprendere della prostituzione imposta a giovani donne libere e indipendenti, con Figlie del Mare ci immergiamo in un mondo a noi lontano, ma così palpabile per la sventura e le atrocità della guerra che colpirono e colpiscono tutt’ora le donne.
Tema tanto scottante, ma così taciuto, attraverso questo romanzo, finalmente la prostituzione viene mostrata in tutto il suo terrificante aspetto storico: donne e bambine, rapite e abusate, senza più radici passate né speranze future, le cui pene vengono riconosciute con l’innalzamento della Statua della Pace a Seoul, in Corea, realizzata come simbolo di denuncia del fenomeno della schiavitù sessuale.
La lista delle donne stuprate durante la guerra è lunga e non smetterà di allungarsi, se non ne fermiamo la portata, smascherando le false verità e parlandone a gran voce, come la scrittrice ha tentato di fare nelle pagine di questo libro.
Di Noemy Dagrosa
Attraverso le pagine di questo romanzo l’autrice ha dato forma e memoria a un aspetto brutale e straziante della Storia: la prostituzione. Una tematica senz’altro scottante e pungente perché la Bracht parla di Comfort Women, bambine e ragazze rapite e ridotte in schiavitù sessuale durante la seconda guerra mondiale. Ma la prostituzione di cui parla l’esordiente scrittrice non è quella a noi più nota che ha riguardato la Storia del nostro paese o del nostro continente: forse anche a causa delle sue origini, Mary Lynn Bracht racconta le esperienze di giovani donne che dalla Corea venivano rapite, strappate alle loro vite e condotte nei peggiori bordelli della Manciuria, per soddisfare i brutali appetiti di eserciti orientali in espansione.
La storia è quella di Hana ed Emi, due sorelle Haenyeo, separate da Morimoto, un soldato giapponese che, invaghitosi di Hana, la rapisce per trasformarla nella sua concubina e nella prostituta di molti. Emi non saprà mai nulla di ciò che accade alla sorella da quel momento in poi, ne tace addirittura l’esistenza con i suoi figli, ma non smetterà mai di cercarla, fino alla fine dei suoi giorni.
Con una prosa leggera, ma dal fortissimo impatto emotivo, l’autrice ha saputo trasmettere magistralmente la brutalità di una guerra di cui molto spesso conosciamo soltanto le grandi conseguenze in ambito europeo. Oltre ad apprendere della prostituzione imposta a giovani donne libere e indipendenti, con Figlie del Mare ci immergiamo in un mondo a noi lontano, ma così palpabile per la sventura e le atrocità della guerra che colpirono e colpiscono tutt’ora le donne.
Tema tanto scottante, ma così taciuto, attraverso questo romanzo, finalmente la prostituzione viene mostrata in tutto il suo terrificante aspetto storico: donne e bambine, rapite e abusate, senza più radici passate né speranze future, le cui pene vengono riconosciute con l’innalzamento della Statua della Pace a Seoul, in Corea, realizzata come simbolo di denuncia del fenomeno della schiavitù sessuale.
La lista delle donne stuprate durante la guerra è lunga e non smetterà di allungarsi, se non ne fermiamo la portata, smascherando le false verità e parlandone a gran voce, come la scrittrice ha tentato di fare nelle pagine di questo libro.
Di Noemy Dagrosa