IL RIBELLE
Dire la verità, arrivare alla verità è azione rivoluzionaria
Nelle mani dell'odio
Non me la prendo con lui. Non ce l’ho con un leader politico (molto più leader che politico) che ha costruito le sue fortune su questo modo di fare proseliti. Un “uomo” alla ricerca del consenso, che un tempo si scagliava contro la puzza dei terroni e ora contro le scarpe da tennis degli stranieri, che si fa propaganda mangiando pane e Nutella ed etichetta gli antagonisti sinistra come “drogati”. ho visto quel personaggio dal vivo, ho ascoltato un comizio di Matteo Salvini, e sono rimasto profondamente deluso dalla portata delle sue parole: da un ministro della Repubblica mi aspettavo altro, sicuramente non un comizio di contrasto a chi gli rinfacciava un’incoerenza palese, non una necessità di lanciare sulla folla l’amo degli slogan anti-immigrati aspettando che anche questa terra abboccasse. ma non me la prendo con Matteo Salvini, meritevole comunque di lode per aver portato la sua lega al governo nazionale, non ce l’ho con lui.
Mi fa rabbia il mio popolo. Un popolo sprofondato in amnesie populiste si è inchinato ai piedi del razzismo, delle tendenze destriste più estreme, abbandonando a volte i ricordi, a volte la ragione, a volte addirittura la dignità. la terra lucana, da sempre abbandonata da qualsiasi governo, priva di infrastrutture e succube di un servilismo alle multinazionali del petrolio -secondo la lega insostituibile proprio mentre il mondo lotta per eliminarlo- ma soprattutto da sempre terra di emigranti. Le tradizioni, la tutela dei cittadini, l’appartenenza ad una nazione, tutto molto bello, ma dove? sotto il dominio dei sovranismi, esasperati fino al voler rinunciare all’Europa, di un duce -pardon- capitano, in divisa che reprime le polemiche volgarmente piuttosto che aprirsi a un dialogo, linfa dell’equilibrio democratico. di “sfigati comunisti” non ce n’erano 10, ce n’erano 40, in mezzo al popolo invasato al punto di spellarsi le mani per una battuta sui migranti. È una rockstar, più adatto al festival di Sanremo (sì, anche lì ha avuto da dire la sua) e ad alleanze favorevoli di governo, è un demagogo straordinario, un mago in grado di sminuire chi non la pensa come lui. ma io me la prendo con chi ci crede, che per un quarto d’ora ha ascoltato i litigi tra un politico e un gruppo di ragazzi che sperano ancora nella coscienza dei Lucani. Non vivono nei centri sociali, ma conoscono la gente stanca dei soprusi, credono nell’accoglienza, nella libertà, nella solidarietà, nell’ambiente, nel rispetto e nell’onestà. Semplicemente non amano i selfie sul palco e bacioni nordici, semplicemente sono cittadini del mondo.
Non me la prendo con lui, ma piuttosto con chi ha distolto il popolo da quei valori, e ci ha consegnati nelle mani dell’odio.
Vito Gulfo
Fabri Fibra è tanta roba
Fabri Fibra definiva “controcultura” quel modo di essere poco mainstream, fuori dalle mode, dagli stili convenzionali, dai modelli dominanti. Il nostro Paese invece, per l’ossessione recente del mainstream populista, è sprofondato in un atteggiamento contro la cultura.
Flat tax, reddito di cittadinanza, manovra del popolo, hanno preso il posto (e i fondi) della cultura. Tagliare nell’istruzione è la peggiore delle manovre che il carro dello Stato possa fare. Certo, i tempi non aiutano: tra giornali che si riempiono di titoli razzisti, di fake news, social che fanno la voce grossa e televisioni ormai monopolio delle parti politiche, l’informazione si sta avvicinando pericolosamente e sempre più velocemente al divertimento e all’intrattenimento, con conseguente cancellazione di ogni forma di cultura.
E così Lino Banfi è in commissione Unesco; non me ne vogliano i suoi fan, ma la parte di Nonno Libero o di Oronzo Canà gli riusciva sicuramente meglio, viste le sue competenze. Questa notizia può sembrare una banalità, e magari non inciderà su quella porzione di popolo che vive di cultura, tuttavia è allarmante: la cultura, che sta alla base del progresso, si sta trasformando in delirio comico e banale. Platone immaginava un’aristocrazia culturale, con i filosofi al governo della città, ma sarebbe come dare il diritto di voto ai soli laureati, misura magari favorevole per le politiche e l’economia della Nazione, ma sarebbe un suicidio per una delle democrazie più solide dell’occidente.
E allora che si fa? Si impone un pensiero a tutti i cittadini? E poi quale? Quis custodiet ipsos custodes? Beh, in realtà basterebbe che gli intellettuali uscissero dalle tane del pensiero e scendessero in piazza, con il popolo che ne ha bisogno, come ai tempi in cui si faceva politica per strada, cultura con la musica, arte con le parole. E non si tratta di “professoroni”, non di “buonisti rossi”, non di uomini “scortati senza motivo”, ma di persone di cultura.
Ah, quel tempo che ci tolse De André per regalarci Toninelli; ah, quella consapevolezza di essere un popolo libero, come l’abbiamo lasciata andare...
Di Vito Gulfo
Flat tax, reddito di cittadinanza, manovra del popolo, hanno preso il posto (e i fondi) della cultura. Tagliare nell’istruzione è la peggiore delle manovre che il carro dello Stato possa fare. Certo, i tempi non aiutano: tra giornali che si riempiono di titoli razzisti, di fake news, social che fanno la voce grossa e televisioni ormai monopolio delle parti politiche, l’informazione si sta avvicinando pericolosamente e sempre più velocemente al divertimento e all’intrattenimento, con conseguente cancellazione di ogni forma di cultura.
E così Lino Banfi è in commissione Unesco; non me ne vogliano i suoi fan, ma la parte di Nonno Libero o di Oronzo Canà gli riusciva sicuramente meglio, viste le sue competenze. Questa notizia può sembrare una banalità, e magari non inciderà su quella porzione di popolo che vive di cultura, tuttavia è allarmante: la cultura, che sta alla base del progresso, si sta trasformando in delirio comico e banale. Platone immaginava un’aristocrazia culturale, con i filosofi al governo della città, ma sarebbe come dare il diritto di voto ai soli laureati, misura magari favorevole per le politiche e l’economia della Nazione, ma sarebbe un suicidio per una delle democrazie più solide dell’occidente.
E allora che si fa? Si impone un pensiero a tutti i cittadini? E poi quale? Quis custodiet ipsos custodes? Beh, in realtà basterebbe che gli intellettuali uscissero dalle tane del pensiero e scendessero in piazza, con il popolo che ne ha bisogno, come ai tempi in cui si faceva politica per strada, cultura con la musica, arte con le parole. E non si tratta di “professoroni”, non di “buonisti rossi”, non di uomini “scortati senza motivo”, ma di persone di cultura.
Ah, quel tempo che ci tolse De André per regalarci Toninelli; ah, quella consapevolezza di essere un popolo libero, come l’abbiamo lasciata andare...
Di Vito Gulfo
POPOLI E RIVOLTE
Nel clima di forte malcontento ed instabilità politica, che sta occupando da un decennio ogni angolo del vecchio continente, stanno avvenendo cambiamenti radicali nella struttura sociopolitica della stessa Europa. Il popolo pretende di tornare al centro della scena nazionale e in questo modo torna a prendersi le piazze e i riflettori sul palco del dibattito politico. Proprio nel Paese che più di 2 secoli fa generò la più grande rivoluzione della storia sembra che la comunità si stia ribellando ad un potere che non rispetta le proprie esigenze, proprio in Francia il movimento dei gilet gialli sta ribaltando la nazione, facendo respirare a Parigi, come i nostri intervistati ci confermano, “un’aria di guerra”. Allora l’establishment europeo dovrebbe tremare, così almeno i leader populisti di tutta Europa tuonano sui social. Ma non è così. Infatti, mentre la Francia è paralizzata da un corteo fosforescente, negli altri stati europei non sembra esserci neanche un minimo accenno ad una possibile rivolta.
Perché tutto ciò? Per un fermo sostenitore del paneuropeismo, uomo che crede alla convivenza di un popolo che, prima di essere Italiano, Tedesco o Francese, debba essere europeo, questo è un interrogativo duro da sciogliere, poiché sottolinea una netta diversità di pensiero tra i popoli europei. In Europa ci sono davvero più popoli, ma da cosa deriva questa difformità nel modo di agire dinanzi alle situazioni? Sicuramente la base culturale sulla quale una nazione si poggia influenza notevolmente la riflessione del cittadino: un ragazzo educato dalla propria famiglia a determinati comportamenti manterrà a sostegno del proprio pensiero quelli che sono i fili cardine dell’etica famigliare, così come, nella maggior parte dei casi, le manterrà un popolo con determinate tradizioni e basi culturali unificando proprio la linea di pensiero su determinati argomenti come può essere quella di 2 fratelli. I Francesi avranno allora un’indole maggiormente orientata alla ribellione, poiché hanno appreso dalla storia che la lezione della rivolta è quella che insegna la libertà; non cercherò però di spiegare a fondo il pensiero transalpino, non conoscendo accuratamente gli usi e i costumi di quel popolo, per dimostrare come le abitudini umane siano legate ad un fardello culturale onnipresente, analizzeremo piuttosto la regione del mondo più vicina a noi, che mostra un comportamento dimetricamente opposto a quello dei cugini d’oltralpe: il Mezzogiorno d’Italia.
Mai nella nostra regione siamo stati protagonisti di una rivoluzione, e ogni rivolta mai scoppiata è stata facilmente sedata dai poteri dell’epoca. Ma perché tutto ciò? Oltre ad una spiegazione prettamente economica che vede il Sud viaggiare ad una velocità nettamente inferiore rispetto ai propri connazionali del settentrione, fattore che innesca direttamente una disparità sul piano culturale e dell’istruzione, c’è una zona di ricerca che è secondo me più interessante da approfondire: due sono le risposte che sono riuscito a darmi.
La prima, pescata in una ricerca del sociologo americano Edward C. Banfield, ci viene in aiuto con il concetto sociologico del familismo amorale: il meridionale legato principalmente alla famiglia nucleare tralascia l’interesse della comunità dinanzi a quello personale; Banfield trova qui il motivo di mancato sviluppo del sud Italia, l’uomo non riesce ad unirsi e a produrre, ma soprattutto non riesce a ribellarsi. L’individuo punta infatti a “massimizzare unicamente i vantaggi materiali di breve termine della propria famiglia nucleare” e “supponendo che tutti si comportino allo stesso modo” non porterà nessuno verso l’azione, anzi, non solo nessuno perseguirà l’interesse della comunità, ma “chiunque affermerà di agire nell’interesse pubblico sarà ritenuto un truffatore”. Le microsocietà cozzeranno ovviamente con l’intenzione comune, o meglio, un’intenzione comune non esisterà affatto, il Mezzogiorno sarà popolato da tanti soggetti che condividono soltanto lo stesso spazio. Ed oltre ad essere incapaci di ribellarsi, l’essere schiavo del familismo contribuisce ad alimentare un sistema sporco e mafioso quale il clientelismo: il voto per l’interesse; l’unica arma che i meridionali hanno in mano viene piacevolmente scambiata per l’interesse personale, al meridionale non interessa cambiare, gli basta vivere, anche sotto un gioco trainato da altri: egli scambierebbe la sua libertà per un piatto di pasta dato alla famiglia, triste encomio di una fatale realtà.
E, in apparente contrapposizione a questa prima tesi, arriviamo al secondo punto del discorso: la forte morale cattolica, radicata profondamente nel sud Italia, influenza fortemente l’incapacità della ribellione dell’uomo. Il cattolicesimo è infatti un credo che punta a schiavizzare i suoi seguaci, perché credere in una dottrina rivelata, in una parola scesa dall’alto, in qualcosa imposto da un essere superiore è essere schiavi; essere schiavi è poi tacere nei momenti di comunione, ascoltando ciecamente, non interagendo.
Cercando infine di arrivare al punto della questione, è il cieco abbandono del fedele nelle mani dell’autorità che lo rende schiavo. Egli crede in Dio, figura che non può essere nominata invano, crede nel Papa, nel sacerdote, nel monaco, crede in sagome di potere che predicano da un pulpito, invece di scambiare opinioni in mezzo ad una piazza. Il cattolico non utilizza il messaggio rivoluzionario contenuto tra le righe del Vangelo per liberare se stesso, anzi, si serve di quelle parole colme di fratellanza e uguaglianza come barricata per una mistica autodifesa di un principio inattaccabile, si avvale della forza evangelica come un’ancora conservatrice gettata in fondo al mare per evitare a se stesso di galleggiare tra le onde. E nel caso del familista cattolico il libro non solo è interpretato male, ma addirittura non rispettato, poiché come può un uomo che lotta solo e soltanto per la propria famiglia aiutare il prossimo? Il forte senso di sottomissione portato avanti dal Cristianesimo innato in un uomo che è totalmente ateo verso la società ha plasmato un uomo incapace di ribellarsi, non per competenza, ma per volontà; la sola possibilità di alzarsi dinanzi al potente non è contemplata, e se, come l'Etienne de la Boétie ci consegna, il voler essere liberi è l’unica strada per esserlo realmente, l’uomo del Sud non pensa proprio ad una prospettiva in cui è lui a mettersi contro un potente. Questo mix letale lega il familista cattolico alle sue radici senza permettergli di alzarsi per combattere la tempesta.
Dunque non è il combattere la difficoltà dei popoli europei, è invece il coraggio di mettersi in piedi contro il nemico, un’azione non insegnataci ugualmente da tutti i nostri avi.
Di Antonio Marsicano
URLA DAL MEDIORIENTE
È notte, e il buio attutisce il duro silenzio in una fredda grotta alpina. Un rumore si può udire in lontananza, vibra tonante nell’aria, risuona da lontano, come se arrivasse dal profondo delle tenebre. È un uomo, solo, infreddolito; studiava in quella grotta, faceva ricerca, era un esperto lui, ma ciò che rende umani gli esperti è la capacità di sbagliare. Grida, con tutta l’anima, usa pienamente le sue forze per richiamare qualsiasi diavolo che si trovi a passare nel cuore della notte davanti a quell’inferno di roccia, gelo e dolore. “Aiuto. Aiuto. Cacciatemi fuori. Portatemi a casa.” Avrà gridato tutta la notte, pensando ai suoi bambini, alla sua moglie amata, pensando alla dolce vita che pian piano scappava dal suo corpo. Ma nessuno giunse in suo soccorso. Le sue parole, cariche di pianto, fluttuavano nella volta stellata, Odissei vaganti, naufraghi nell’infinito. Nessuno sa ciò che quell’uomo aveva da dirci, nessuno conosce i suoi timori, nessuno le sue speranze, non sappiamo quand’egli sia morto, né quando iniziò a bestemmiare il cielo, quell’uomo in quella maledetta notte fu figlio del nulla.
Sento quindi sono, potremmo dire: non conoscendo determinati eventi del flusso del nostro universo non ha senso parlarne, tutto potrebbe esistere, ma ciò che esiste davvero è quello che l’uomo sa, ciò che l’uomo vede. All’ignoranza di un evento per l’uomo (protagoricamente divisibile in uomo, comunità od umanità) consegue l’inesistenza dello stesso evento. Il rumore quindi è tattile conferma di esistenza, l’urlare ci rende parte del mondo.
Ma nonostante ciò, ci sono angoli della terra dove le grida di migliaia di persone non arrivano alle orecchie della popolazione, vedendosi negata l’amplificazione dei media, arma di conoscenza di massa dalla notte dei tempi. Troviamo un esempio lampante in quello che da sempre è il focolaio inestinguibile delle guerre del pianeta: il Medio Oriente, precisamente un piccolo paese al sud dello stesso: lo Yemen. La condizione politica yemenita è, come spesso accade in quelle zone, qualcosa di intricato e difficilissimo, ricca di molti “Al” che complicano maggiormente la situazione.
In seguito ad un governo 30ennale del presidente Ali Saleh, che ha portato il Paese all’unificazione, le primavere arabe hanno deposto lo stesso, imponendo un governo sunnita che avrebbe dovuto portare il Paese alle elezioni democratiche. Qui sta il nocciolo della questione: gli sciiti del paese, terrorizzati da un governo autoritario del reggente, all’anagrafe Abd Hadi, hanno riacceso le tensioni, giungendo nel 2015 ad una vera e propria guerra tra i ribelli Houthi, sciiti e supportati dall’Iran, e il governo centrale che altro non rappresenta che un fantoccio dell’Arabia Saudita e dei suoi storici alleati.
Bombardamenti, navi ancorate al di là della costa, incursioni di terra, l’occidente yemenita è assediato dalle maggiori potenze mondiali, con armi convenzionali e non: non l’atomica a scacciare i ribelli, né tantomeno lo sono i gas, la coalizione guidata da Ryhad si serve dell’arma della fame per decimare la popolazione.
“La morte per fame utilizzata come arma rappresenta un crimine di guerra” così dichiarava l’allora segretario generale dell’ONU Ban Ki-moon; l’embargo saudita verso lo Yemen, l’attacco sistematico dei porti sta causando una quantità esponenziale di morti, più che tra le file ribelli nella popolazione civile: la città di Al Hodeida, ricco porto sul mar rosso, è divenuta una città fantasma, dove grande parte della popolazione vive nell’indigenza più totale, senza una casa, senza i diritti più elementari, e con un nuovo nemico alla porta: il colera, i cui casi sono aumentati del 170% tra giugno e agosto (da Save the Children). L’immigrazione è l’unico mezzo per coloro capaci di pagare le spese di sopravvivere, oltre agli aiuti portati dall’Iran, che faticano sempre più ad arrivare a destinazione: infatti in queste terre di pescatori ogni imbarcazione che prova ad allontanarsi dalla costa viene all’istante affondata.
Sebbene la povertà assoluta sia ormai una certezza dati i 14 milioni di abitanti a rischio carestia (su una popolazione di 28 mln, dati del 2017, il 50% del totale), e un prodotto interno lordo di 18 miliardi con una variazione annua del -34%, per dare un’idea Amazon ha fatturato 117 miliardi nel 2017 in continua crescita, lo Yemen resta un territorio molto interessante dal punto di vista geopolitico. Innanzitutto per la sua posizione, punto di connessione tra mar Rosso e Golfo persico; poi per motivi più strettamente politici: a causa della caduta di Hadi gli Usa hanno perso un fondamentale alleato alla lotta contro Al Qaeda e Isis in quelle zone, in più il territorio è visto dai due rivali storici, l’Arabia e l’Iran, come stracci da spartirsi, una terra ormai morta che va solamente divisa.
A fomentare il conflitto è però un altro fattore: tornando all’argomento incipitario di questo mio articolo, è l’indifferenza delle potenze occidentali e dei media provenienti dalle stesse ad uccidere migliaia di yemeniti e a permettere ai sauditi di commettere crimini di guerra impunemente. L’Arabia Saudita è lo stesso stato che, dopo aver mandato segretamente a morte Jamal Khashoggi, giornalista e dissidente saudita, insabbia perfettamente i propri comportamenti firmando negli stessi giorni contratti a 10 zeri con gli Usa per la vendita di armi. Non sono le armi che uccidono gli yemeniti, è la reazione dell’Occidente che va a chiudere occhi e orecchie, rendendo quella faccenda un qualcosa di inesistente, come quell’uomo che solo in una grotta urlava alla notte; gli interessi economici altissimi che l’Italia e le altre potenze europee ripongono in una zona del mondo che già più di una volta è andata a controllare la geopolitica locale grazie alla propria potenza (vedasi ‘Isis’), non ci permettono di difendere l’uomo che vive in quella zona e che subisce le angherie degli esportatori di democrazia e dei loro amici.
È compito allora del cittadino, quando è impossibile aiutare fisicamente la popolazione, aprirsi al mondo e guardare verso il riecheggiare disatteso dei disperati immersi nelle grotte della Terra, poiché nonostante l’uomo continui a gridare con tutto se stesso, per dare un senso alle sue urla serve qualcuno che l’ascolti.
Di Antonio Marsicano
LA NUOVA SINISTRA
Da qualche anno a questa parte la sinistra europea vive un periodo di profonda crisi: il Partito Socialista francese ha perso gran parte del suo elettorato e il Partito Democratico pian piano lo sta seguendo a ruota. Sono ormai diventati, da partiti di massa quali erano, partiti di nicchia lasciando campo libero ai populisti e alla destra sovranista, per usare un eufemismo.
La causa principale è l’allontanamento di questi partiti dalla propria base sociale; la classe dirigente per anni si è dimenticata dei lavoratori, degli studenti e dei disoccupati. Si sono per troppo tempo portate avanti politiche neo-liberiste, simili, se non identiche, a quelle dei tradizionali partiti di centro e di centro-destra. Sono state privatizzate infrastrutture vitali come: telefonie, autostrade, ferrovie, cedendo all’idea che il privato, efficiente e pulito, sia migliore della gestione pubblica, inefficiente e corrotta, non tenendo conto del fatto che il privato ha come unico obbiettivo il guadagno e fa di tutto pur di farlo lievitare il più possibile, anche non garantendo, spesso correttamente, il servizio, come recentemente abbiamo potuto constatare con il caso del ponte Morandi di Genova. Si è difesa per troppo tempo l’ormai indifendibile Unione Europea, non più dei lavoratori, ma solo un’enorme lobby bancaria che ha distrutto paesi come la Grecia.
Il problema più grande però è stato non aver saputo interpretare la Globalizzazione, nonostante l’abbiano sognata ed introdotta. Sono rimasti ad un mondo che non esiste più, difendono idee e campagne ormai inutili. La cosa più importante che non hanno capito, che sta alla base della globalizzazione è il rimescolamento delle classi: un libero professionista, che veniva e viene erroneamente considerato borghese, al giorno d’oggi vive in una grande città come un proletario. La Globalizzazione ha dato il via alla nascita di nuove classi di sfruttati senza diritti come ad esempio i delivery, che non sono state mai considerate dai partiti di sinistra tradizionali. Il divario tra ricchi e poveri è aumentato, è diventato più netto, basti pensare che, secondo l’ultimo rapporto sulla ricchezza nel mondo pubblicato dall’ONG Oxfam, le otto persone più ricche del mondo possiedono tanta ricchezza quanto la metà più povera della popolazione mondiale, più precisamente possiedono 426 miliardi di dollari, mentre i 3,6 miliardi di abitanti più poveri della terra ne possiedono appena 409.
Per anni si è pensato di ampliare la gamma dei diritti di chi i diritti già ce li aveva e sono stati lasciati a se stessi i lavoratori con contratti a sei giorni, contratti a progetto, ovvero lavoratori senza diritti e senza garanzie: i nuovi sfruttati del Duemila. Si può affermare quindi che il rapporto conflittuale sfruttatore-sfruttato esiste ancora, ma sono cambiati i soggetti.
Qualcuno potrebbe obiettare che ci sono soggetti politici impegnati in queste lotte. Ci sarebbero i partiti di estrema sinistra, o presunti tali, che dovrebbero essere gli eredi dei partiti comunisti, ma le idee portate sono anacronistiche, legate ad un mondo che non c’è più. La loro classe dirigente, legata troppo alle proprie elucubrazioni, persa nei discorsi aulici alla Fusaro proferiti in televisione, è il problema più grave; è inconsistente, incapace di controbattere anche il più stupido degli esponenti della destra capace solo di aizzare nei comizi la massa.
La situazione può apparire catastrofica ma non lo è. In un periodo di crisi come questo c’è bisogno della sinistra dalla parte degli sfruttati, nel senso più ampio possibile del significato, reinventata, globalizzata.
Cosa ci deve essere alla base della “nuova sinistra”?
Bisogna innanzi tutto ritrovare i capostipiti del socialismo, Marx e Gramsci e rileggerli in chiave moderna, globalizzata, staccandosi dal ‘900, scegliendo una via nuova da percorrere. Dobbiamo lasciarci alle spalle le dittature, le repressioni avvenute nei paesi dove il comunismo ha avuto la massima, ma sbagliata, realizzazione pratica. Bisogna realizzare le idee che la sinistra dello scorso secolo non è riuscita a portare avanti. Bisogna creare una forza politica di sinistra socialista europea capace di contrastare le forze neo-liberali prima che distruggano l’EU definitivamente.
La rivoluzione non dovrà essere violenta, ma democratica.
Bisogna scendere nelle periferie, parlare con la gente, capirne i bisogni e i disagi, creare luoghi di discussione, aprire una fitta rete di sezioni e circoli culturali. Bisogna dialogare con i nuovi cittadini nelle scuole creando la base della nuova sinistra. I giovani devono essere istruiti ad immaginare: immaginare un mondo nuovo, ormai non si sogna più. Dobbiamo puntare sull’istruzione, difendere la classe degli insegnanti da anni vessata, poiché svolge un ruolo importantissimo, istruire i giovani rendendoli buoni cittadini; allo stesso tempo bisogna pretendere molto da loro affinché svolgano al meglio il loro lavoro di insegnanti. Il primo pericolo della democrazia e della libertà infatti è l’ignoranza, i populisti fanno così presa sulle masse grazie ai loro slogan pieni di frasi fatte che colpiscono la pancia delle persone; inoltre il popolo solo studiando può prendere coscienza dei propri diritti.
Alla base della lotta però non ci dovranno essere solo le lotte sociali, ma anche quelle economiche.
La globalizzazione ha favorito il libero scambio di merci, abbattendo o abbassando i dazi doganali; nel nostro paese ormai troviamo merci da qualsiasi parte del mondo e questo è meraviglioso. Il libero commercio non è però tutto rose e fiori, infatti con il suo avvento è aumentata la concorrenza di altri paesi, soprattutto di quelli in via di sviluppo, come la Cina o l’India che vendono gli stessi prodotti a minor prezzo. Questi paesi riescono a tenere così bassi i prezzi perché sono bassi i costi, soprattutto quelli del lavoro; infatti lì non sono garantiti tutti i diritti, inoltre i lavoratori vengono sottopagati. Come si fa a credere di introdurre un mercato globale, senza dazi e frontiere, senza globalizzare anche la regolamentazione del lavoro? I grandi marchi, che hanno come unico obiettivo il guadagno e la capitalizzazione ad ogni costo, pur di guadagnare di più delocalizzano la produzione all’estero, dove la produzione costa di meno e leggi sono più permissive; il risultato è lo sfruttamento dei lavoratori, soprattutto di bambini nei paesi esotici dove viene trasferita la produzione, e la disarmante disoccupazione nei paesi d’origine.
Bisogna lottare per un’unificazione delle leggi sul lavoro e dei diritti a livello globale, così da garantire ai lavoratori sfruttati nei paesi in via di sviluppo delle condizioni migliori e da dare lavoro ai lavoratori dei paesi già industrializzati. Ovviamente questa manovra non può essere portata avanti da un solo partito nazionale, ma da un’unione di partiti; ed è qui che si evidenzia l’importanza di una sinistra unita a livello globale.
Un’altra grande questione da affrontare è l’immigrazione: da molto anni sulle coste dell’Europa meridionale, e soprattutto in Italia, arrivano migranti che fuggono dalla guerra e dalla fame. Fino ad oggi i flussi migratori sono stati gestiti male, i migranti sono stati lasciati a loro stessi o messi in centri di accoglienza; ma comunque in tutti e due i casi gli è stato negato il diritto di una vita migliore; spesso vengono schiavizzati, costretti a lavorare in condizioni pietose per una misera paga. Spesso sono stati mandati in periferie dove già le problematiche erano tante, un errore gravissimo, perché così facendo si sono rese le periferie ancora più invivibili. La sinistra, in quanto tale, non può permettere che tutto ciò accada. L’unica soluzione che io ritengo plausibile è la gestione di questi flussi a livello europeo, una soluzione che oggigiorno potrebbe sembrare utopica, ma che si potrebbe rivelare più di un sogno se solo si riuscisse a creare una forza socialista europea, che si curi del bene dell’intera UE, e non del singolo stato.
La strada è ancora lunga ma non bisogna arrendersi!
Di Antonio Prestera
La causa principale è l’allontanamento di questi partiti dalla propria base sociale; la classe dirigente per anni si è dimenticata dei lavoratori, degli studenti e dei disoccupati. Si sono per troppo tempo portate avanti politiche neo-liberiste, simili, se non identiche, a quelle dei tradizionali partiti di centro e di centro-destra. Sono state privatizzate infrastrutture vitali come: telefonie, autostrade, ferrovie, cedendo all’idea che il privato, efficiente e pulito, sia migliore della gestione pubblica, inefficiente e corrotta, non tenendo conto del fatto che il privato ha come unico obbiettivo il guadagno e fa di tutto pur di farlo lievitare il più possibile, anche non garantendo, spesso correttamente, il servizio, come recentemente abbiamo potuto constatare con il caso del ponte Morandi di Genova. Si è difesa per troppo tempo l’ormai indifendibile Unione Europea, non più dei lavoratori, ma solo un’enorme lobby bancaria che ha distrutto paesi come la Grecia.
Il problema più grande però è stato non aver saputo interpretare la Globalizzazione, nonostante l’abbiano sognata ed introdotta. Sono rimasti ad un mondo che non esiste più, difendono idee e campagne ormai inutili. La cosa più importante che non hanno capito, che sta alla base della globalizzazione è il rimescolamento delle classi: un libero professionista, che veniva e viene erroneamente considerato borghese, al giorno d’oggi vive in una grande città come un proletario. La Globalizzazione ha dato il via alla nascita di nuove classi di sfruttati senza diritti come ad esempio i delivery, che non sono state mai considerate dai partiti di sinistra tradizionali. Il divario tra ricchi e poveri è aumentato, è diventato più netto, basti pensare che, secondo l’ultimo rapporto sulla ricchezza nel mondo pubblicato dall’ONG Oxfam, le otto persone più ricche del mondo possiedono tanta ricchezza quanto la metà più povera della popolazione mondiale, più precisamente possiedono 426 miliardi di dollari, mentre i 3,6 miliardi di abitanti più poveri della terra ne possiedono appena 409.
Per anni si è pensato di ampliare la gamma dei diritti di chi i diritti già ce li aveva e sono stati lasciati a se stessi i lavoratori con contratti a sei giorni, contratti a progetto, ovvero lavoratori senza diritti e senza garanzie: i nuovi sfruttati del Duemila. Si può affermare quindi che il rapporto conflittuale sfruttatore-sfruttato esiste ancora, ma sono cambiati i soggetti.
Qualcuno potrebbe obiettare che ci sono soggetti politici impegnati in queste lotte. Ci sarebbero i partiti di estrema sinistra, o presunti tali, che dovrebbero essere gli eredi dei partiti comunisti, ma le idee portate sono anacronistiche, legate ad un mondo che non c’è più. La loro classe dirigente, legata troppo alle proprie elucubrazioni, persa nei discorsi aulici alla Fusaro proferiti in televisione, è il problema più grave; è inconsistente, incapace di controbattere anche il più stupido degli esponenti della destra capace solo di aizzare nei comizi la massa.
La situazione può apparire catastrofica ma non lo è. In un periodo di crisi come questo c’è bisogno della sinistra dalla parte degli sfruttati, nel senso più ampio possibile del significato, reinventata, globalizzata.
Cosa ci deve essere alla base della “nuova sinistra”?
Bisogna innanzi tutto ritrovare i capostipiti del socialismo, Marx e Gramsci e rileggerli in chiave moderna, globalizzata, staccandosi dal ‘900, scegliendo una via nuova da percorrere. Dobbiamo lasciarci alle spalle le dittature, le repressioni avvenute nei paesi dove il comunismo ha avuto la massima, ma sbagliata, realizzazione pratica. Bisogna realizzare le idee che la sinistra dello scorso secolo non è riuscita a portare avanti. Bisogna creare una forza politica di sinistra socialista europea capace di contrastare le forze neo-liberali prima che distruggano l’EU definitivamente.
La rivoluzione non dovrà essere violenta, ma democratica.
Bisogna scendere nelle periferie, parlare con la gente, capirne i bisogni e i disagi, creare luoghi di discussione, aprire una fitta rete di sezioni e circoli culturali. Bisogna dialogare con i nuovi cittadini nelle scuole creando la base della nuova sinistra. I giovani devono essere istruiti ad immaginare: immaginare un mondo nuovo, ormai non si sogna più. Dobbiamo puntare sull’istruzione, difendere la classe degli insegnanti da anni vessata, poiché svolge un ruolo importantissimo, istruire i giovani rendendoli buoni cittadini; allo stesso tempo bisogna pretendere molto da loro affinché svolgano al meglio il loro lavoro di insegnanti. Il primo pericolo della democrazia e della libertà infatti è l’ignoranza, i populisti fanno così presa sulle masse grazie ai loro slogan pieni di frasi fatte che colpiscono la pancia delle persone; inoltre il popolo solo studiando può prendere coscienza dei propri diritti.
Alla base della lotta però non ci dovranno essere solo le lotte sociali, ma anche quelle economiche.
La globalizzazione ha favorito il libero scambio di merci, abbattendo o abbassando i dazi doganali; nel nostro paese ormai troviamo merci da qualsiasi parte del mondo e questo è meraviglioso. Il libero commercio non è però tutto rose e fiori, infatti con il suo avvento è aumentata la concorrenza di altri paesi, soprattutto di quelli in via di sviluppo, come la Cina o l’India che vendono gli stessi prodotti a minor prezzo. Questi paesi riescono a tenere così bassi i prezzi perché sono bassi i costi, soprattutto quelli del lavoro; infatti lì non sono garantiti tutti i diritti, inoltre i lavoratori vengono sottopagati. Come si fa a credere di introdurre un mercato globale, senza dazi e frontiere, senza globalizzare anche la regolamentazione del lavoro? I grandi marchi, che hanno come unico obiettivo il guadagno e la capitalizzazione ad ogni costo, pur di guadagnare di più delocalizzano la produzione all’estero, dove la produzione costa di meno e leggi sono più permissive; il risultato è lo sfruttamento dei lavoratori, soprattutto di bambini nei paesi esotici dove viene trasferita la produzione, e la disarmante disoccupazione nei paesi d’origine.
Bisogna lottare per un’unificazione delle leggi sul lavoro e dei diritti a livello globale, così da garantire ai lavoratori sfruttati nei paesi in via di sviluppo delle condizioni migliori e da dare lavoro ai lavoratori dei paesi già industrializzati. Ovviamente questa manovra non può essere portata avanti da un solo partito nazionale, ma da un’unione di partiti; ed è qui che si evidenzia l’importanza di una sinistra unita a livello globale.
Un’altra grande questione da affrontare è l’immigrazione: da molto anni sulle coste dell’Europa meridionale, e soprattutto in Italia, arrivano migranti che fuggono dalla guerra e dalla fame. Fino ad oggi i flussi migratori sono stati gestiti male, i migranti sono stati lasciati a loro stessi o messi in centri di accoglienza; ma comunque in tutti e due i casi gli è stato negato il diritto di una vita migliore; spesso vengono schiavizzati, costretti a lavorare in condizioni pietose per una misera paga. Spesso sono stati mandati in periferie dove già le problematiche erano tante, un errore gravissimo, perché così facendo si sono rese le periferie ancora più invivibili. La sinistra, in quanto tale, non può permettere che tutto ciò accada. L’unica soluzione che io ritengo plausibile è la gestione di questi flussi a livello europeo, una soluzione che oggigiorno potrebbe sembrare utopica, ma che si potrebbe rivelare più di un sogno se solo si riuscisse a creare una forza socialista europea, che si curi del bene dell’intera UE, e non del singolo stato.
La strada è ancora lunga ma non bisogna arrendersi!
Di Antonio Prestera