IDEE
Riflessioni e approfondimenti. Società e cultura. Pensieri e IDEE. Creatività e conoscenza!
La lettura del meraviglioso testo di Italo Calvino, “Le città invisibili”, pubblicato nel 1972, è stata fonte di ispirazione per me. L’esplorazione di un mondo nuovo e sconosciuto, seppur limitato da barriere mentali, più che metafisiche, mi ha spinto a sfidare i confini più ovvi di un’apparente realtà, per superarla e reinventarla secondo la mia personale fantasia.
Il libro costituisce la narrazione dei viaggi immaginari di Marco Polo, raccontati al sovrano Kublai Kan, il quale ascolta il viaggiatore con melanconia e disincanto, consapevole dell’autodistruzione cui va incontro il suo impero.
L’atteggiamento razionalistico e imperturbabile del sovrano dà presto spazio alla curiosità e alla speranza di chi non può smettere di credere in una soluzione.
Kublai e il lettore, allo stesso tempo, scavalcano i confini del possibile, per cominciare a viaggiare in un universo visionario e impossibile, fatto di città straordinarie.
La città non è mai soltanto un luogo, la città è memoria, segno, linguaggio, scambio, desiderio, nome, segreto, morte, e tanto altro.
Questa è la mia città: Parmenidea.
Le città nascoste 6.
Seconda stella a destra, questo è il cammino, e poi dritto fino al mattino: è questa la strada che conduce a Parmenidea, la città del non-essere. Al viaggiatore apparirà subito come la città invisibile nel senso più reale del termine; Parmenidea è, a dire il vero, l’apoteosi dell’invisibilità e dell’inconsistenza.
Parmenidea è la città del non-luogo, del non-tempo, delle non-persone, delle non-azioni, della non-esistenza. Qui, tutto ciò che si vede, in realtà non esiste. Tutto ciò che si sente, invero è muto. Tutto ciò che si muove, serba inesorabilmente la propria staticità.
È tra volti non-volti e parole non-parole che si consuma la quotidianità di questa cittadina. Tra specchi che non riflettono immagini inesistenti e orologi che non rintoccano tempi mai esistiti.
Parmenidea è il vuoto, è il tutto, è la città che custodisce gli esemplari più rari di non-vita, esseri inimmaginabili, mai vissuti prima d’ora e, per questo, mai morti.
La non-vita dei non-abitanti di Parmenidea potrebbe suggerire al visitatore l’idea di una città in cui transitano corpi morti fisicamente e rinati spiritualmente; ma attenzione, perché Parmenidea non costituisce un regno ultraterreno, non è il luogo celeste in cui confluiscono tutti coloro che si spengono nel resto delle altre città. Parmenidea non è altro che il riflesso distorto dell’apparente realtà. È il rovescio della medaglia.
Qui il celeberrimo motto parmenideo si trasforma interamente, per diventare, come recitano le non-mura della città cristallina, “l’essere non è e non può essere, il non essere è e può essere”.
Come una proiezione fuligginosa, come una trasposizione ingegnosa, Parmenidea può essere immaginata in antitesi con tutto ciò che è.
E così come in vita, per contrasto, è il non essere che permette di determinare l’essere, qui, nella città della non-vita, è ciò che potrebbe essere in vita che consente di restringere il campo della non-esistenza a una cerchia ben determinata di oggetti non-oggetti e persone non-persone.
Parliamo di edifici senza fondamenta, di porte inesorabilmente chiuse. Colori ciechi. Luci spente, lucide oscurità. Brividi caldi, silenzi eloquenti, sospiri assordanti, passi senza rumore. Vite eterne e morti della durata di un istante.
Qui, le non-persone si dividono tra chi non fa e chi fa. I primi, cullandosi in un otium senza fine, guadagnano e migliorano le proprie condizioni di non-vita; i secondi, operosi e dinamici, non vogliono sottomettersi alla logica becera della città, e, di conseguenza, fanno e fanno ancora, perdendo così tutti i propri non-averi.
A Parmenidea esistono cannocchiali, binocoli e monocoli, ma questi sono tesi unicamente all’allontanamento dell’oggetto che si mira, quasi a sottolinearne l’estraneità dalla realtà.
Chiaramente, alle non-persone di Parmenidea respirare può risultare fatale. Non-vivere è un lusso di cui i Parmenidiani fanno prudentemente tesoro. Lontani dai pericoli, si avvicinano alla morte. Trascinandosi, in questa maniera, un sostrato di rimpianti, nostalgie e illusioni mai accesesi e mai spentesi, né in vita, né in morte.
Il viaggiatore, vagando tra le strade fluttuanti della città, quasi toccando il cielo con un dito, sfiorando le stelle grigiastre e le nuvole brillanti che si alternano imperterrite nel vuoto, non riesce a spiegarsi come possa, tutto ciò che lo circonda, non-esistere, pur essendo lì, fermo e immobile.
A rifletterci bene, pensieri confusi cominciano ad annebbiare la mente.
Parmenidea esiste? Oppure no.
Parmenidea è reale? Altrimenti è fantasia.
Parmenidea è vita? In alternativa è la morte.
Ma più spesso accade che l’utilizzo del contrario di un concetto risulti insufficiente a veicolare un messaggio.
Parmenidea non è il contrario di qualcosa, essa è l’essenza stessa della vita, ciò che permette agli abitanti delle altre città di rammentare il significato reale del vivere, ricordando che essere vivi richiede uno sforzo di gran lunga maggiore del semplice esistere.
Di Aurora Alliegro
L'ancora di gomma
Lavoro da un po’ di tempo come istruttore in una piscina. Quell’ambiente soffocante dove il tutto è amplificato dal dolce olezzo del cloro è un libro aperto, il libro del mondo di goldoniana memoria nelle cui pagine si può trovare ogni aspetto più nascosto della mente umana; delle decine di persone passate tra le calde acque di una corsia ognuna di esse possiede una storia, dei vizi, degli amori, e ogni comportamento degli aspiranti nuotatori è uno specchio nella sua psiche, in quanto immersi in un habitat che non è quello umano non si pensa ad esporre la maschera del momento, ma con piena sincerità ci si mostra al mondo raccontando ognuno un pezzo della propria storia, inermi davanti allo scorrere del tempo, in una nudità intellettuale che espone ogni essere ai suoi pari, senza nessuna menzogna, senza nessuna difesa.
Ed è impressionante quanto si possa imparare da ogni ragazzo, bambino o vecchio che sia, tutti esplicitano comportamenti appartenenti alla propria persona che direttamente raccontano molto di ciò che sta accadendo alle nuove generazioni e di cosa le vecchie stanno subendo dal nuovo mondo; ma più semplicemente in quelle 5 corsie, piene di lacrime e sudore versato da ognuno di quei nuotatori o aspiranti tali, i comportamenti atavici e propri di ognuno escono fuori, come in un libro, a piè di pagina, e tocca a noi leggerli, per imparare qualcosa del nostro mondo direttamente da lui.
C’è ad esempio una bambina sui quali comportamenti ho speso molto tempo a riflettere. Essa vive un amore infinito. Ama assolutamente la sua tavoletta, per i più inesperti quel pezzo di spugna usato per fare esercizi ma anche ancora di galleggiamento per ogni bambino. La sua situazione delinea un romanticismo quasi lirico: nel sempre molto poetico sfondo di un parco natatorio, tra le decine di signore anziane da segnare a vista per evitare ogni possibile affogamento s’intravede lei, scricciolo di 6 anni che abbraccia il suo Romeo dinanzi ad ogni minaccia, senza lasciarlo, affondando le sue scheletriche dita nella morbida gomma, contro ogni urlo, contro ogni supplica, contro ogni intimidazione lei è lì, avvolta all’amante in un indissolubile abbraccio che sfida ogni potente.
La scintilla tra i 2 nacque in un anonimo giorno di settembre quando la giovane, nuotando sola tra i flutti si trovò per puro caso ad affogare annaspando, un errore, nel quale chiunque può cadere, ancor di più se si è una bambina che ancora non ha imparato a leggere. Fu così che iniziò la storia, lei nuotatrice inconsapevole di esserlo, la tavoletta, ancora di un galleggiamento superfluo. La piccola, pur sapendo di saper nuotare da sola, non ha alcuna intenzione di abbandonare il proprio appiglio, unico ormeggio a cui aggrapparsi colma di insicurezza e paura, lo stringe quindi dinanzi alla realtà evitando di affrontare a viso aperto il suo timore, l’ansia di non riuscire ad andare avanti, la paura di oltrepassare un vuoto già sorpassato aggrappandosi alle proprie certezze.
L’episodio della bambina e della sua tavola offre uno spunto di riflessione importante su quello che è l’uomo e su uno dei suoi nemici più grandi che, come spesso accade, si nasconde al suo interno. Il pregiudizio e gli schemi mentali che egli si autoimpone bloccano la propria crescita e la propria evoluzione, ma non solo, distruggono i rapporti umani e la convivenza tra simili.
Come la giovane non riesce a partire libera tra le acque, così l’uomo schiavo degli idola tanto additati dal filosofo inglese Francis Bacon resta immobile nel flusso della vita. Ma se i pregiudizi radicati sono appunto impiantati nella nostra mente dalla nascita, seppur in modo diverso, l’edificazione del preconcetto diviene una pratica sì vecchia come il mondo, ma sempre più frequente. Tende quindi a formarsi un mondo parallelo, adornato di ricami barocchi, costellato di ponti che sorvolano i dirupi, che evitano il pericolo; è impossibile quindi il raggiungimento di ogni obiettivo poiché si vive un mondo con le convinzioni di un altro, non solo non esiste più la terra, ma il guardare il tutto da quell’unica prospettiva annulla qualsiasi altra possibilità di società dato che essa altro non è che l’insieme di ogni punto di vista e il dare per ovvio uno di essi ne esclude a priori qualunque altro.
E quindi nacquero i razzismi, i nazionalismi, le tensioni sociali e infine tutte le guerre, il radicamento dell’idea è padre di ogni conflitto, è allora esso l’appiglio di tutti i mali poiché, essendo le idee a far girare la terra il controllo di esse è la fine della stessa. Bloccare l’idea su una sola frequenza è firmare la propria condanna di schiavitù, guardare il mondo con un paio di occhi è una falsa visione di esso, ci consegnano infatti solo un ritratto, quando il dipinto della terra è in realtà un paesaggio infinito.
Solo il relativismo potrebbe quindi consegnarci la giusta visione della terra, stilando la sua verità: non esiste una verità, non esiste una visione giusta, quello che più si avvicina ad una verità è l’insieme di ogni prospettiva, impensabile alla mente umana vederlo da un solo lato. Impresa ardua quindi l’abbandonare ogni bussola, il viaggiare sospinto dai soffi del vento, ma unico modo per godere l’oceano; molto più semplice sarebbe quindi l’usare un ponte, quel ponte che la mente ci offre, accompagnati dalla nostra idea verso l’altra sponda, non godendo però di quella che è la strada reale, guardando il mare come una superstrada, non come distesa infinita ma spigolosa e bloccata. Perché se il mondo può essere visto in maniera sbagliata e il progresso personale può anche aspettare, è il nostro vicino, l’uomo che vive accanto a noi che non può subire questa pena, non può subire un’opinione data da una visione aiutata da lenti opache.
E il viaggiare stretti ad una tavoletta ci impedisce di nuotare liberi tra le acque dell’universo, capirne le forme, amarne i colori, resteremo sempre appoggiati a quel pezzo di spugna, cullati dai flutti, ma fermi in uno stagno di un’isola immersa nell’oceano.
Di Antonio Marsicano
Ed è impressionante quanto si possa imparare da ogni ragazzo, bambino o vecchio che sia, tutti esplicitano comportamenti appartenenti alla propria persona che direttamente raccontano molto di ciò che sta accadendo alle nuove generazioni e di cosa le vecchie stanno subendo dal nuovo mondo; ma più semplicemente in quelle 5 corsie, piene di lacrime e sudore versato da ognuno di quei nuotatori o aspiranti tali, i comportamenti atavici e propri di ognuno escono fuori, come in un libro, a piè di pagina, e tocca a noi leggerli, per imparare qualcosa del nostro mondo direttamente da lui.
C’è ad esempio una bambina sui quali comportamenti ho speso molto tempo a riflettere. Essa vive un amore infinito. Ama assolutamente la sua tavoletta, per i più inesperti quel pezzo di spugna usato per fare esercizi ma anche ancora di galleggiamento per ogni bambino. La sua situazione delinea un romanticismo quasi lirico: nel sempre molto poetico sfondo di un parco natatorio, tra le decine di signore anziane da segnare a vista per evitare ogni possibile affogamento s’intravede lei, scricciolo di 6 anni che abbraccia il suo Romeo dinanzi ad ogni minaccia, senza lasciarlo, affondando le sue scheletriche dita nella morbida gomma, contro ogni urlo, contro ogni supplica, contro ogni intimidazione lei è lì, avvolta all’amante in un indissolubile abbraccio che sfida ogni potente.
La scintilla tra i 2 nacque in un anonimo giorno di settembre quando la giovane, nuotando sola tra i flutti si trovò per puro caso ad affogare annaspando, un errore, nel quale chiunque può cadere, ancor di più se si è una bambina che ancora non ha imparato a leggere. Fu così che iniziò la storia, lei nuotatrice inconsapevole di esserlo, la tavoletta, ancora di un galleggiamento superfluo. La piccola, pur sapendo di saper nuotare da sola, non ha alcuna intenzione di abbandonare il proprio appiglio, unico ormeggio a cui aggrapparsi colma di insicurezza e paura, lo stringe quindi dinanzi alla realtà evitando di affrontare a viso aperto il suo timore, l’ansia di non riuscire ad andare avanti, la paura di oltrepassare un vuoto già sorpassato aggrappandosi alle proprie certezze.
L’episodio della bambina e della sua tavola offre uno spunto di riflessione importante su quello che è l’uomo e su uno dei suoi nemici più grandi che, come spesso accade, si nasconde al suo interno. Il pregiudizio e gli schemi mentali che egli si autoimpone bloccano la propria crescita e la propria evoluzione, ma non solo, distruggono i rapporti umani e la convivenza tra simili.
Come la giovane non riesce a partire libera tra le acque, così l’uomo schiavo degli idola tanto additati dal filosofo inglese Francis Bacon resta immobile nel flusso della vita. Ma se i pregiudizi radicati sono appunto impiantati nella nostra mente dalla nascita, seppur in modo diverso, l’edificazione del preconcetto diviene una pratica sì vecchia come il mondo, ma sempre più frequente. Tende quindi a formarsi un mondo parallelo, adornato di ricami barocchi, costellato di ponti che sorvolano i dirupi, che evitano il pericolo; è impossibile quindi il raggiungimento di ogni obiettivo poiché si vive un mondo con le convinzioni di un altro, non solo non esiste più la terra, ma il guardare il tutto da quell’unica prospettiva annulla qualsiasi altra possibilità di società dato che essa altro non è che l’insieme di ogni punto di vista e il dare per ovvio uno di essi ne esclude a priori qualunque altro.
E quindi nacquero i razzismi, i nazionalismi, le tensioni sociali e infine tutte le guerre, il radicamento dell’idea è padre di ogni conflitto, è allora esso l’appiglio di tutti i mali poiché, essendo le idee a far girare la terra il controllo di esse è la fine della stessa. Bloccare l’idea su una sola frequenza è firmare la propria condanna di schiavitù, guardare il mondo con un paio di occhi è una falsa visione di esso, ci consegnano infatti solo un ritratto, quando il dipinto della terra è in realtà un paesaggio infinito.
Solo il relativismo potrebbe quindi consegnarci la giusta visione della terra, stilando la sua verità: non esiste una verità, non esiste una visione giusta, quello che più si avvicina ad una verità è l’insieme di ogni prospettiva, impensabile alla mente umana vederlo da un solo lato. Impresa ardua quindi l’abbandonare ogni bussola, il viaggiare sospinto dai soffi del vento, ma unico modo per godere l’oceano; molto più semplice sarebbe quindi l’usare un ponte, quel ponte che la mente ci offre, accompagnati dalla nostra idea verso l’altra sponda, non godendo però di quella che è la strada reale, guardando il mare come una superstrada, non come distesa infinita ma spigolosa e bloccata. Perché se il mondo può essere visto in maniera sbagliata e il progresso personale può anche aspettare, è il nostro vicino, l’uomo che vive accanto a noi che non può subire questa pena, non può subire un’opinione data da una visione aiutata da lenti opache.
E il viaggiare stretti ad una tavoletta ci impedisce di nuotare liberi tra le acque dell’universo, capirne le forme, amarne i colori, resteremo sempre appoggiati a quel pezzo di spugna, cullati dai flutti, ma fermi in uno stagno di un’isola immersa nell’oceano.
Di Antonio Marsicano
Bartolomè de Las Casas e l’incontro con l’“altro”
Se pensassimo alla storia dell’umanità, ci verrebbero in mente non pochi momenti in cui popoli di cultura e provenienza diversa si sono incontrati e hanno vissuto in un stesso luogo.
Per l’Occidente l’incontro più sensazionale fu certamente quello con gli Indios: approdati sulla costa americana, gli europei scoprirono un vero e proprio nuovo mondo, abitato da circa 80 milioni di persone. Gli eventi che seguirono sono noti a tutti ormai: colonizzazione da parte delle potenze europee; sfruttamento delle risorse naturali del posto; schiavizzazione delle civiltà, che avevano abitato quei luoghi sin dall’alba dei tempi. Sarebbe riduttivo pensare che l’uomo europeo del ‘500 si limitò a sfruttare l’ “altro”: infatti se facessimo un viaggio nella sua mente, ci accorgeremmo che prima di tutto lo conobbe, in seguito ne analizzò la cultura e successivamente, con una certa presunzione, lo ritenne inferiore e lo sottomise. Il confronto con popolazioni delle quali non si era neppure immaginata l’esistenza mise in crisi certezze radicate nella cultura cristiana dell’epoca: non si era certi che gli indigeni fossero figli di Dio, inoltre praticavano religioni politeiste e, secondo molti, erano privi di cultura.
Una delle voci più celebri, che si levarono a denunciare il disumano sfruttamento degli Indios, fu quella di un frate domenicano: Bartolomé de Las Casas. Trasferitosi in America per gli interessi coloniali della famiglia, egli comprese la drammatica situazione in cui vivevano quelle popolazioni e visse in prima persona il travaglio dell'incontro con il diverso da sé. Dedicò tutta la sua vita alla lotta per i diritti degli indigeni e, nonostante la sua “Storia generale delle Indie” spinse Carlo V a ridurre la schiavitù e ad abolire le encomienda, fino alla morte pensò di non aver fatto abbastanza per loro. La figura di questo frate domenicano potrebbe sembrarci quasi anacronistica, ma anche lui era figlio del suo tempo: basti pensare che propose di importare dall'Africa manodopera di colore, in modo da rimpiazzare gli Indios. È l'approccio con l'”altro” a differenziare Las Casas dai conquistadores, ad esempio. Non si “difende” dal diverso da sé sottomettendolo, ma comprende la relatività della situazione: per gli Indios, infatti, gli europei erano l' “altro”. Ai loro occhi l'uomo occidentale del '500 era un Dio che cavalcava un quadrupede mai visto prima. Gli Indios erano visti, invece, come una popolazione retrograda, di cultura troppo lontana da quella cristiana e quindi non degna di essere definita tale. Le incompatibilità con il mondo cristiano giustificarono le atrocità inflitte agli indigeni. Alla crudeltà dei suoi, Las Casas contrappone un amore incondizionato per un popolo, che difenderà con tutte le forze fino alla morte.
La storia ci insegna che da sempre etnie differenti si sono ritrovate ad abitare uno stesso luogo e, dando un'occhiata al telegiornale, pare che sia un fenomeno presente ancora oggi. L'incontro con l'altro si presenta ancora come un' esperienza di disagio: è nella natura umana essere spaventati da ciò che è talmente lontano da noi da non poter essere capito. La domanda allora sorge spontanea: “Come fare?”, a questo punto bisogna fare una scelta: Las Casas o conquistadores?
Di Elena Mazzini
Per l’Occidente l’incontro più sensazionale fu certamente quello con gli Indios: approdati sulla costa americana, gli europei scoprirono un vero e proprio nuovo mondo, abitato da circa 80 milioni di persone. Gli eventi che seguirono sono noti a tutti ormai: colonizzazione da parte delle potenze europee; sfruttamento delle risorse naturali del posto; schiavizzazione delle civiltà, che avevano abitato quei luoghi sin dall’alba dei tempi. Sarebbe riduttivo pensare che l’uomo europeo del ‘500 si limitò a sfruttare l’ “altro”: infatti se facessimo un viaggio nella sua mente, ci accorgeremmo che prima di tutto lo conobbe, in seguito ne analizzò la cultura e successivamente, con una certa presunzione, lo ritenne inferiore e lo sottomise. Il confronto con popolazioni delle quali non si era neppure immaginata l’esistenza mise in crisi certezze radicate nella cultura cristiana dell’epoca: non si era certi che gli indigeni fossero figli di Dio, inoltre praticavano religioni politeiste e, secondo molti, erano privi di cultura.
Una delle voci più celebri, che si levarono a denunciare il disumano sfruttamento degli Indios, fu quella di un frate domenicano: Bartolomé de Las Casas. Trasferitosi in America per gli interessi coloniali della famiglia, egli comprese la drammatica situazione in cui vivevano quelle popolazioni e visse in prima persona il travaglio dell'incontro con il diverso da sé. Dedicò tutta la sua vita alla lotta per i diritti degli indigeni e, nonostante la sua “Storia generale delle Indie” spinse Carlo V a ridurre la schiavitù e ad abolire le encomienda, fino alla morte pensò di non aver fatto abbastanza per loro. La figura di questo frate domenicano potrebbe sembrarci quasi anacronistica, ma anche lui era figlio del suo tempo: basti pensare che propose di importare dall'Africa manodopera di colore, in modo da rimpiazzare gli Indios. È l'approccio con l'”altro” a differenziare Las Casas dai conquistadores, ad esempio. Non si “difende” dal diverso da sé sottomettendolo, ma comprende la relatività della situazione: per gli Indios, infatti, gli europei erano l' “altro”. Ai loro occhi l'uomo occidentale del '500 era un Dio che cavalcava un quadrupede mai visto prima. Gli Indios erano visti, invece, come una popolazione retrograda, di cultura troppo lontana da quella cristiana e quindi non degna di essere definita tale. Le incompatibilità con il mondo cristiano giustificarono le atrocità inflitte agli indigeni. Alla crudeltà dei suoi, Las Casas contrappone un amore incondizionato per un popolo, che difenderà con tutte le forze fino alla morte.
La storia ci insegna che da sempre etnie differenti si sono ritrovate ad abitare uno stesso luogo e, dando un'occhiata al telegiornale, pare che sia un fenomeno presente ancora oggi. L'incontro con l'altro si presenta ancora come un' esperienza di disagio: è nella natura umana essere spaventati da ciò che è talmente lontano da noi da non poter essere capito. La domanda allora sorge spontanea: “Come fare?”, a questo punto bisogna fare una scelta: Las Casas o conquistadores?
Di Elena Mazzini